Ogni giurista, ogni magistrato, ogni avvocato, ogni studente di legge italiano è in qualche modo un piccolo figlio di Piero Calamandrei, il padre costituente e l’intellettuale che più di ogni altro ha lasciato la sua impronta nel mondo del diritto e dei diritti nel nostro paese. Una figura che ha attraversato gli anni drammatici delle due guerre mondiali e della dittatura fascista traendo forza e saggezza dagli orrori a cui ha assistito. E che ha contribuito in modo decisivo alla costruzione della vita democratica in Italia, un bene prezioso, che bisogna trattare con cura e mai dare per acquisito, come disse nel famoso discorso sulla Costituzione del 1955 rivolto ai suoi studenti della statale di Milano: «La libertà è come l'aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare». Uno sguardo rivolto alla pratica quotidiana del diritto alle sue procedure e al suo esercizio nell’esistenza di tutti i giorni perché la forma è sostanza, e l’altro più filosofico, puntato sui principi e sulle fondamenta della democrazia: queste due dimensioni nell’avvocato Calamandrei sono sempre intrecciate, senza soluzione di continuità, illuminate da una prosa limpida e ispirata, mai pedante, mai retorica. Perché Calamadrei era anche un uomo di lettere e di buone letture, scrittore e poeta, autore di racconti e favole per bambini sospinto fin da giovane dalla vocazione letteraria. Figlio di un professore di diritto appassionato di politica che fu anche deputato repubblicano, nasce a Firenze nel 1889 e come si conviene ai ragazzi di buona famiglia prosegue la tradizione familiare iscrivendosi alla facoltà di giurisprudenza di Pisa, dove si laurea nel 1912. È influenzato profondamente dagli studi di Giuseppe Chiovenda sul diritto processuale e sull’«importanza politico- sociale del processo» come luogo di attuazione della legge, un campo che fino ad allora era sprovvisto di rigore scientifico e dottrinario eed dominato dalla tradizione liberale che disconosceva la sua dimensione pubblica, d’interesse generale. A soli 26 anni è nominato docente universitario di diritto processuale, ma è il 1915 l’anno in cui l’Italia entra in guerra contro l’Austria-Ungheria e la Germania e Calamandrei arruola convinto. Ma di fronte alla crudezza delle battaglie e alla ferocia degli ufficiali nei confronti dei propri soldati il suo entusiasmo interventista si dissipa in fretta. Anche se riceve encomi ed è promosso tenente colonnello, al fronte si sente più avvocato che combattente e spesso si ritrova a esercitare la professione difendendo una decina commilitoni accusati di codardia e di aver abbandonato il combattimento, riuscendo peraltro a farli assolvere. Negli anni 20 approfondisce ed estende le tesi di Chiovenda sulla processualistica civile e sull’indipendenza della giustizia dal potere esecutivo, concetti che lega a considerazioni di ordine generale, gli stessi che modelleranno il moderno Stato di diritto. Con l’avvento del fascismo Calamandrei rimane indignato dalla violenza delle squadracce che mettono a ferro e fuoco le borse del lavoro, i circoli culturali ma anche tanti studi di avvocati non allineati o vicini alle sinistre. Nel 1924 sottoscrive il Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce. Ma la morsa del regime si fa sempre più stretta, gli spazi politici si richiudono, l’Italia scivola nella dittatura e Calamandrei si ritira nell’insegnamento e nello studio nonostante i vertici fascisti lo chiamino a collaborare alla commissione di riforma del codice di procedura penale. Accetterà a malincuore, ma si rifiuta comunque di prendere la tessera del Pnf. La sua posizione resta defilata e sofferta almeno fino al 1941 quando aderisce al movimento Giustizia e Libertà di Ferruccio Parri con il quale l’anno successivo fonda il Partito d’azione. Ma è con la caduta del fascismo e la nascita della repubblica che Calamandrei assume un ruolo centrale partecipando alla stesura della Costituzione italiana all’interno dell’Assemblea costituente. Certo, ha le sue idee specifiche e non tutte sono state attualizzate, come ad esempio il sistema presidenziale fatto di pesi contrappesi sul modello americano che ritiene il migliore per il nostro paese in quanto garanzia di stabilità politica, ma il nucleo della sua riflessione va oltre le architetture istituzionali, oltre i dispositivi elettorali identificando nell’Assemblea il cuore della sovranità e della legittimità democratica. Per questo motivo difende la repubblica parlamentare e la Carta costituzionale come sono venute fuori dal confronto in Assemblea, proprio come frutto del compromesso e della dialettica tra le forze politiche. Con uno sguardo consapevole sull’aspetto simbolico di alcuni articoli, come quelli sui diritti sociali, concessione al partito comunista di Togliatti che in cambio di una «rivoluzione mancata», ottiene una «rivoluzione promessa ». Piero Calamandrei è stato anche il primo prestigioso presidente del Consiglio nazionale forense, carica che ricopre per dieci anni fino alla sua morte dovuta alle complicazioni di un intervento chirurgico nel 1956. E fondatore della rivista politico-letteraria il Ponte sulle cui pagine sono apparsi i suoi scritti più celebri come il folgorante Elogio dei giudici scritto da un avvocato, un’opera ricca di aneddoti forensi, di esperienze processuali concrete, di casistiche stimolanti, ma anche di robusti orizzonti etici e filosofici che dovrebbero essere discussi e condivisi tra la magistratura e la avvocatura, due funzioni diverse ma ugualmente pilastri fondamentali del diritto, che guai se entrassero in rotta di collisione tra di loro come accade troppo di frequente: «L'avvocato deve sapere in modo così discreto suggerire al giudice gli argomenti per dargli ragione, da lasciarlo nella convinzione di averli trovati da sé. Il segreto della giustizia sta in una sempre maggior umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore».