Mi chiesero: «Lei è responsabile dei reati che le sono ascritti?» Risposi veloce: «Sì».

Non era vero, e lo sapevano anche loro – ma non importava. C’era il reato associativo e questo bastava. E con il “concorso morale”, di qualunque gesto fosse stato responsabile uno di noi, ne eravamo tutti colpevoli. D’altra parte, anche noi la pensavamo così: “loro” erano una associazione, “loro” erano tutti colpevoli, fosse anche per omissione, e quanto meno per concorso morale. Gli uni e gli altri, ci eravamo comportati di conseguenza.

Al primo processo a Napoli mi diedro 8 anni, era caduta l'accusa di banda armata

Il primo processo a Napoli – per associazione sovversiva e banda armata che aveva operato al Sud – mi diedero otto anni; era caduta l’accusa di banda armata: non eravamo così temibili, non c’erano gravi reati di sangue, qualche attentato, qualche rapina. Mi andò bene perché l’avvocato mi convinse a prendere parte a un riconoscimento: c’era un testimone. Io non ne avevo intenzione – non partecipavamo ai “riti del processo”, ma lui mi disse una cosa del tipo: “Che ti costa, tanto non ti riconosce”. Così andai, e in effetti il testimone disse che – no, non ero io l’affittuario del covo. Così evitai forse qualche anno in più, anche se invece lo diedero a un mio compagno che era rimasto fedele all’impegno di non accettare confronti e venne considerato, lui, l’affittuario del covo dove avevano trovato tutto il materiale che riconduceva ai vari attentati. Ero io, l’affittuario, ma andò così: a loro serviva uno qualunque.

Nel secondo processo a Roma, il primo costruito intorno ai "pentiti", mi diedero 30 anni

Il secondo processo, a Roma, mi diedero invece trent’anni. Qui c’era un’altra banda armata e c’erano tanti reati, al nord, al sud e al centro: non c’erano morti, per fortuna. Fu il primo processo costruito intorno ai “pentiti”. Tutti venimmo considerati responsabili di tutto. Era il “concorso morale”, dispiegato in pieno; al di là anche di una mera considerazione “geografica”: che i meridionali fossero colpevoli dei reati al Sud, e i settentrionali di quelli a Nord - macché. Stavolta tutti avevamo degli avvocati – tutti quelli in aula, altri erano latitanti da anni. Ma erano come imbambolati, basiti – aspettavano che passasse la buriana. Ma il pm giocava sporco.

Durante l’interrogatorio di uno di noi il pm citò il processo di Napoli per costruire connessioni e responsabilità e aggravare un quadro fosco di pericolosità – a esempio, la quantità di armi a disposizione. Che era stata invece proprio la motivazione in sentenza per attenuare la nostra pericolosità. Dalla gabbia in aula, chiesi di intervenire e spiegai. La cosa irritò molto il pm. Irritò anche gli avvocati difensori – era una osservazione banale ma puntuale che avrebbe potuto fare uno qualunque di loro, ma non conoscevano la cosa e d’altronde quanti mai procedimenti avrebbero dovuto conoscere, quante migliaia di carte avrebbero dovuto sapere? Loro aspettavano che passasse la buriana.

Avevo scritto di aver “contribuito all’estinzione di quella organizzazione”, ma per il pm era “all’estensione dell’organizzazione”

A me avevano sequestrato in carcere dei fogli su cui stavo scrivendo una sorta di mia memoria difensiva. Nei carceri speciali – e io li ho girati quasi tutti – facevano di queste cose: servivano per le loro “prove”. Bene: avevo scritto che avevo “contribuito all’estinzione di quella organizzazione” – e era andata proprio così: ci eravamo sciolti, troppo militarismo e il rapporto con strutture di base di lotta, di cui ci consideravamo solo il braccio operativo, armato, si stava perdendo, si era perso. Non volevamo essere come le Br.

Il pm usò quei fogli per dire che io avevo contribuito “all’estensione dell’organizzazione”: un piccolo slittamento semantico che diceva proprio l’opposto: d’altronde, ero un “colonnello” – e quei gradi dovevano ben significare qualcosa. Lo feci notare, come prima; e come prima, il pm stizzito, gli avvocati impagliati. E così, arrivammo ai trent’anni.

In Cassazione il giudice Carnevale smontò il nostro “concorso morale”

In appello, divennero ventitrè. Non cambiava poi molto. Poi, finimmo in Cassazione, e qui trovammo il giudice Carnevale. Non sono in grado di dare un giudizio sull’uomo, che suscitò molte controversie e una campagna aggressiva, anche perché la sua “linea di condotta” non si applicò solo alla nostra sentenza ma, successivamente, a altre per associazione mafiosa; ma Carnevale smontò il nostro “concorso morale”. Fu la prima volta, il primo processo per il quale decadde – anche se la cosa non provocò un “ripensamento” dei legislatori. Così, noi tornammo in appello.

Avevamo iniziato uno sciopero della fame. Durò trentadue giorni e io arrivai a pesare cinquantadue chili

Nel frattempo, era intervenuta la legge per la dissociazione – e io ne ero stato, nell’Area autonoma di Rebibbia, tra quelli che si era impegnato di più negli incontri con politici, dirigenti dell’amministrazione penitenziaria (con qualcuno sono ancora in contatto), personalità ecclesiastiche, giornalisti, per portarla avanti. Quasi tutti noi del secondo processo vi aderimmo. Ma io uscii per il mio stato di salute: ero prostrato e frustrato, anche per vicende personali. Ero stato arrestato a aprile del 1978 – in pieno sequestro Moro: eravamo finiti a Poggioreale, sparsi tra i padiglioni dei detenuti comuni; poi, avevano deciso di isolarci in un repartino, e lì avevamo iniziato uno sciopero della fame. Durò trentadue giorni, e io arrivai a pesare cinquantadue chili e un mio compagno perse un rene; ma dissero che ci avrebbero riportato nei padiglioni e intanto ci misero in quello sanitario per riprenderci; poi, di notte, ci impacchettarono e ci portarono negli speciali: il generale dalla Chiesa aveva deciso così, eravamo sulla sua lista. E iniziò il mio percorso nel “circuito dei camosci”: uscii a febbraio del 1985, ma agli arresti domiciliari, fino a novembre – altri nove mesi infernali. Poi, tra cumulo e legge della dissociazione finì che feci più carcere di quello che mi toccava. Capitava, con la giustizia forfettaria. Un tanto a chilo – che faccio, lascio? Lasci.

Le leggi di emergenza sono state mostruose

La legislazione d’emergenza è stata mostruosa e ha costruito mostri: non parlo solo delle “figure giuridiche” ma delle persone in carne e ossa. E dalla parte dei “combattenti” e dalla parte dello Stato. C’è un episodio emblematico. Siamo verso i colpi di coda del terrorismo – dopo le confessioni di Peci e le centinaia di arresti. Un gruppo che si era costruito intorno la figura di un ex- detenuto che si era politicizzato in carcere avvicinandosi alle Br e era poi uscito a fine pena – compie una rapina alla fine della quale uccide due guardie giurate, ormai disarmate e a terra, lasciando un volantino di “campagna contro la dissociazione” accusando un’altra terrorista, da poco arrestata, di essere in realtà un’infiltrata dei servizi segreti. Nell’aula di un processo che si svolgeva in quei giorni, viene letto un comunicato delle BRrche smentisce categoricamente che la terrorista accusata sia un’infiltrata – avevano fatto una “indagine interna”; implicitamente, prendono le distanze da quella azione. Il gruppo viene arrestato e succede che alcuni finiranno con chiedere la legge sulla dissociazione. È il caos totale.

Ci trovammo imprigionati tra leggi di emergenza e terrorismo

In un bel libro di Fernando Aramburu, Patria, i cui personaggi vivono in una cittadina dei Paesi Baschi dilaniata dalle azioni dell’Eta e dagli schieramenti, anche all’interno di una stessa famiglia, che esse provocano, un giovane militante accusato di gravi reati finisce all’ergastolo: è arrogante, rabbioso, fragile nella sua ideologia. Aramburu non ha tentennamenti nel mostrarci l’insensatezza delle azioni armate, l’alone di sostegno, convinto o forzato, e la scia di dolore che esse provocano – non ha neppure tentennamenti nell’additare la violenza dello Stato e del carcere e delle torture. Era quella stessa spirale di violenza in cui ci trovammo imprigionati qui – tra legislazione d’emergenza e terrorismo. Quando l’Eta dichiara finita la lotta armata, quelli rimasti in carcere erano i più refrattari, e chi mostrava dubbi o perplessità veniva ostracizzato, isolato. Tra loro, il giovane protagonista della storia, che intanto è invecchiato, che intanto si è staccato da tutto, dai suoi antichi compagni e anche da se stesso. Gli rimane solo un pezzo della sua famiglia.

In Italia mancò una soluzione politica al terrorismo: la “linea della fermezza” dal sequestro Moro non ebbe più incrinature, ripensamenti, riletture

Quello che mancò anche in Italia – e che finì per caricare tutto sulle spalle discrezionali della magistratura, che assunse un ruolo di supplenza e salvifico, quindi con una sorta di “investitura” sociale e morale – fu una soluzione politica al terrorismo. Il che significa che una questione politica venne trattata solo come questione criminale – fatto questo che nella storia di questo paese non è propriamente del tutto nuovo. Mancò, quel ruolo, soprattutto quando le due principali organizzazioni della lotta armata, le Brigate rosse e Prima linea, l’avevano sostanzialmente dichiarata finita. Mancò, intendo, da parte delle principali forze politiche del paese: la “linea della fermezza” che era scesa in campo, con enorme sostegno della stampa, durante il sequestro Moro non ebbe più incrinature, ripensamenti, riletture. Non le ha mai più avute.

E in un modo e nell’altro – sempre lì si viene rimandati. Sono passati quarantaquattro anni dal 16 marzo 1978 – e la “soluzione biologica”, ovvero la naturale morte sta ormai prendendo il posto di ogni ipotesi di soluzione politica. Chissà, magari prima di arrivare a cinquanta se ne potrebbe riparlare. Giusto per dire, che ormai. Capita ripetutamente che negli istituti superiori dove qualche insegnante si avventura nei territori della storia contemporanea, alla domanda sui responsabili della strage di piazza Fontana la risposta degli studenti sia: le Brigate rosse. Nel buio della conoscenza, tutte le vacche sono nere.