di Giuseppe Cioffi*

Appena ufficializzata la lista dei ministri, e prima ancora che il governo avesse la fiducia delle Camere, diversi commentatori non si sono risparmiati dal muovere critiche al neo guardasigilli Carlo Nordio, anche sul piano personale e, in qualche caso, con dubbio gusto. Dinanzi a un assetto governativo nuovo, e all’attuazione o alla prima verifica di riforme dell’ordinamento giudiziario e del processo, ci sono già avvisaglie di attriti fra una parte della magistratura associata e l’esecutivo.

Non conosco il ministro personalmente, ho avuto sempre stima di Nordio come scrittore e opinionista, anche perché il pensiero espresso nei libri che ha pubblicato corrisponde in gran parte a quanto da me detto e scritto da oltre 20 anni, in particolare in tema di revisione del catalogo dei reati nel nostro ordinamento penale, e ancor più per quello che riguarda la cosiddetta separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti.

Di quest’ultimo argomento mi sono occupato, tra l’altro, in un articolo scientifico pubblicato a giugno scorso sulla rivista “Indice penale” in cui indico l’articolo 107 comma 4 della Costituzione quale strada maestra per il riconoscimento della completa differenziazione tra organo inquirente e magistratura giudicante. Senza che ciò significhi essere contro i opm, depotenziare l’azione penale o ancora sottoporre il requirente all’esecutivo fino a favorire condotte illecite dei cosiddetti “White collars”. Bene: nella stessa direzione mi pare si orienti il programma del guardasigilli.

A proposito di possibili riforme gravate dal pregiudizio, non si può dimenticare come, in passato, istanze ideologiche di stampo colpevolista abbiano condizionato vari governi, che pure avrebbero voluto si pervenisse ad amnistie e condoni, ma che hanno rinunciato a tali obiettivi, e lasciato così gli uffici giudiziari soccombere sotto una mole sempre più gravosa di fascicoli che, soprattutto per i fatti bagatellari, approdano in massima parte a un nulla di fatto, per prescrizione o altro. Non si è utilizzato l’istituto dell’amnistia, pur sempre in vigore, nonostante si fosse consapevoli della necessità di liberare le sedi giudiziarie dall’infinita quantità di atti in campo penale, conseguenza dell’obbligatorietà dell’azione penale che, a parere di chi parla, appare forse antagonistica rispetto alle urgenze di una società dinamica e globale. L’obbligatorietà rende inevitabilmente perseguibili penalmente condotte che solo idealmente è immaginabile pensare di poter controllare.

In tal senso condivido pienamente non solo l’idea di ridurre sensibilmente il numero delle fattispecie penali, ma anche di richiamare un po’ l’intero ordine giudiziario a prendere le distanze dal fenomeno della cosiddetta “processualizzazione delle categorie sostanziali”, come ben illustrato in un recentissimo articolo firmato dal professor Fiandaca sulle pagine di questo quotidiano. Nel condividere le posizioni di un altro luminare della scienza processual- penalistica, il professor Spangher, Fiandaca ha scritto che il processo penale è degenerato in strumento di lotta a fenomeni, laddove sarebbe semplicemente un mezzo di accertamento dei reati, fino a spezzare l’equilibrio tra finalità repressive e rispetto delle garanzie.

Viene anche fatto cenno alla esperienza di Mani pulite intesa come attività inquirente diretta a disarticolare un sistema, più che ad individuare responsabilità personali. Sono in sintonia con tale pensiero, e dico ovviamente, perché sin dal 1995 fui tra chi sollecitava un “self- restraint giudiziario”, che non significava demordere dal colpire la corruzione e le sue articolazioni, ma rifarsi al codice e alle garanzie, e al rispetto della divisione dei poteri, rifuggendo ogni spettacolarizzazione dell’attività di indagine.

Al riguardo confido e ritengo che l’azione del nuovo governo in tema di giustizia sia orientata, anche per la compiuta attuazione di quanto già previsto nei decreti attuativi della riforma della precedente ministra, a rendere il processo penale effettivo e rapido, ma anche a riappropriarsi di tutti quei compiti di contrasto alle mafie rispetto ai quali l’organo giudiziario si è “autodelegato”.

Certo, non si può tacere che tale supplenza si sia radicata anche in una logica di prevenzione e in risposta a una certa incapacità del potere politico nel fare la propria parte in modo coordinato con l’azione giudiziaria. Si è generato così, nel vuoto della politica, un malinteso interesse dell’apparato giudiziario a farsi carico del ruolo di controllo di legalità, di difesa delle istituzioni democratiche in vista di un rinnovamento della politica e di una moralizzazione della società, come mirabilmente scrive Fiandaca sul Dubbio.

A mio sommesso avviso, il progetto di riportare nel loro naturale alveo l’azione giudiziaria e il processo penale, senza certamente ridimensionare il contrasto alla delinquenza comune e associata, costituisce il solco in cui l’azione del nuovo governo dovrà incanalarsi. Di ciò sembrano esserci tutte le premesse, pur con le difficoltà di un momento in cui tanta attenzione reclama l’attuazione del Pnrr, come ricordato di recente dallo stesso ministro Nordio, il quale ha ribadito la necessità di saper coniugare certezza della pena e presunzione di non colpevolezza ex articolo 27 della Costituzione. (*Magistrato, presidente di Sezione penale presso il Tribunale di Napoli Nord)