Ergastolo ostativo uguale tortura. A ribadirlo, in una lettera inviata al Fatto Quotidiano, è il magistrato napoletano Henry John Woodcock, che smonta la bufala del “fuori tutti i mafiosi” che ha tenuto banco nella discussione sull’articolo 4 bis dopo la pronuncia della Corte costituzionale di oltre un anno fa. Una bufala che si basa su alcune convinzioni: che la collaborazione con la giustizia sia l’unica prova di una recisione dei legami con il contesto criminale d’appartenenza da parte di detenuti che hanno passato in carcere 26 anni della loro vita (termine che sale a 30 anni con il decreto legge licenziato dal governo Meloni) e che pensare una disciplina diversa, rispettosa della Costituzione, equivalga a infangare la memoria di Giovanni Falcone, tirato in ballo ogni volta che c’è da affrontare l’argomento per far sentire dalla parte sbagliata chi solleva qualche dubbio. Woodcock - che di certo non può essere accusato di essere “amico dei mafiosi”, come spesso viene tacciato chi osa criticare l’ergastolo ostativo - mette in fila gli argomenti criticando anche la pronuncia della Consulta. Non solo per la decisione di rinviare al legislatore la scelta su come adeguarsi alla cornice costituzionale violata da tale norma, ma anche per il suggerimento fornito allo stesso, che, di fatto, rende quasi impossibile poter ottenere i benefici previsti dalla legge. Il punto di partenza è che la collaborazione con la giustizia, lungi dall’essere un percorso di vera rivisitazione critica delle proprie scelte, finisce con il diventare un’opzione, una scelta di comodo, insomma, per dirla con Woodcock, una «"scelta" imposta». Una volta scardinato l’automatismo che prevedeva la concessione di benefici solo in caso di collaborazione e ribadito «il fondamentale principio della polifunzionalità della pena e in particolare la funzione rieducativa della pena stessa», la Corte costituzionale ha “suggerito” al legislatore delle opzioni, tra le quali ancorare l'autorizzazione all’accesso ai benefici all’accertamento di «specifiche ragioni della mancata collaborazione». Ed è qui che il magistrato napoletano cita Falcone, tentando di smentire chi attribuisce a lui quell’automatismo e quella inflessibilità bocciati dalla Corte: «Invero - afferma - ho solo avuto, per ragioni anagrafiche, la possibilità di ascoltare e di leggere nei media alcuni interventi di Giovanni Falcone, acuto e tenace investigatore, unico e “moderno”, e mi è parso in tutta franchezza culturalmente e ideologicamente lontano da alcune delle più che rispettabili posizioni che capita in questi giorni di leggere sui giornali». L’idea di fondo, stando alla discussione interna alla politica e parte dell’opinione pubblica, è infatti che la pronuncia della Consulta renda meno efficace il contrasto alle mafie, tradendo, in qualche modo, l’insegnamento di chi, come il magistrato siciliano, ha pagato con la propria vita la lotta alla criminalità organizzata. Ma fu proprio Falcone - come più volte ricordato da Damiano Aliprandi dalle colonne di questo giornale - il primo ad essere consapevole che l’ergastolo senza condizionale sarebbe stato incostituzionale: con il primo decreto legge del 13 maggio 1991, il numero 152, Falcone, all’epoca direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, non aveva infatti escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, bensì aveva allungato i termini per ottenerla. E fu solo dopo la sua morte, dunque, che venne introdotto quell’automatismo oggi considerato incostituzionale dal giudice della legge. Un discorso che Woodcock, contrariamente ad altri, sembra ricordare bene, nonostante la “durezza” sempre dimostrata dalla toga - spesso criticata anche da questo quotidiano - nella gestione delle sue inchieste. Ma il pm napoletano va oltre, parlando non di collaborazione, bensì di «delazione»: l’ergastolo ostativo, afferma, in realtà «vuole punire chi non “si pente”» o, peggio ancora, rappresenta «una sorta di tortura intesa a favorire la “collaborazione” e ciò perché per “pentimento” nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta a una revisione critica del proprio passato, e di conseguenza a un autentico ravvedimento con la conseguente decisione di cambiare vita. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità della tortura». Pensare che la discussione possa esaurirsi attorno alla conta dei mafiosi che possono uscire dal carcere è una visione semplicistica, secondo Woodcock, in quanto la vera questione è stabilire se la collaborazione sia l’unico modo per accedere ai benefici, in tal modo stabilendo «una coincidenza esclusiva e una assoluta sovrapponibilità tra il percorso “rieducativo” cui fa riferimento l’articolo 27 della Costituzione e la delazione». Una binomio «aberrante» e in contrasto con la Carta, «che va applicata sempre e comunque e non una volta sì e una volta no», ricorda ai teorici della “Costituzione più bella del mondo” a giorni alterni. Cosa valorizzare, dunque, per superare il contrasto? La risposta del magistrato è semplice: il tempo trascorso in espiazione della pena. «Il trascorrere del tempo modifica qualsiasi cosa - sottolinea -; in oltre un quarto di secolo tutto cambia (o comunque non può a priori escludersi che tutto cambi), dalla natura e dal vissuto del condannato, fino alle dinamiche e agli equilibri criminali». Certo, al tempo che passa occorre che si associ anche un percorso di ravvedimento e di autentica dissociazione dal contesto criminale di origine, «ma un tale percorso non ha nulla a che vedere con la “delazione” che spesso, si diceva, è sintomatica di tutto, tranne che di un autentico ravvedimento». Basti pensare, su tutti, al caso del falso pentito Vincenzo Scarantino, che ha fatto arrestare e condannare moltio innocenti, accusati di aver eseguito la strage di via D’Amelio. Ma l’idea di Woodcock non piace a Marco Travaglio, la cui replica è piccatissima: «Solo i criminali chiamano “delazione” il dire la verità». Sempre che di verità si tratti.