La casella del ministero della Giustizia sembra stare ai margini delle febbrili trattative in corso per comporre il nuovo esecutivo. In questi giorni appaiono altre le poste in gioco e gli uffici di via Arenula stanno un po’ in disparte, quasi che solo a risiko finito si potrà sapere chi sarà il prossimo Guardasigilli. Eppure.

Eppure la legislatura appena iniziata si prefigura foriera di grandi novità sul versante giudiziario, almeno a partire dagli annunci fatti in campagna elettorale in cui si promettevano epocali svolte e solenni prese di posizione. Un fattore gioca a tutto vantaggio delle riforme giudiziarie, la circostanza che molte tra esse sono a costo zero. Soprattutto sul versante della riforma del Csm, della allocazione del pubblico ministero, delle progressioni di carriere, degli incarichi direttivi la legislazione si annuncia senza alcun aggravio per le casse dello Stato. Una cosa non da poco in tempi neppure di vacche magre, ma di vera e propria “moria” come avrebbe detto il grande De Curtis.

Il ministro che verrà, quindi, avrà certo chiara la finestra di opportunità che gli viene offerta da una condizione in cui, per qualunque iniziativa legislativa ( tasse, scuola, pensioni ect.) sono necessarie ingenti risorse, mentre la macchina giudiziaria potrebbe essere registrata con modifiche normative ininfluenti sull’esausto bilancio erariale e profittando, anzi, delle risorse europee del Pnrr. La scelta sul come procedere, ossia da quale capo iniziare a sbrogliare la matassa giudiziaria nel nostro paese, non è cosa né facile, né politicamente neutrale.

In un efficace intervento sul Corriere della sera di ieri - per giunta dal titolo particolarmente evocativo («Giustizia: i confini dell’ipocrisia») - Luigi Ferrarella ha posto sul tavolo il problema dell’assetto funzionale e organizzativo del Csm, evocando pericoli che il lavacro dell’Hotel Champagne non ha certo esorcizzato e dissipato. Sicuramente riportare il Csm nell’alveo delle attribuzioni di autogoverno disegnate con precisione dalla Costituzione (articolo 104) è un’operazione immane dai contraccolpi politici incalcolabili che passa, anche e non solo, da un profondo ripensamento della legge elettorale per la scelta dei componenti togati che, sebbene appena collaudata, ha già mostrato antichi vizi e poche virtù.

La scelta dei 10 componenti laici e del vicepresidente tra essi sarà cruciale per ottenere la presenza nel Csm di una componente politica che operi non certo da “quinta colonna” del ministro della Giustizia, ma da interlocutore affidabile e credibile nel momento in cui tutte le riforme saranno discusse. Un Guardasigilli che voglia portare a compimento senza troppe lacerazioni una missione riformatrice deve poter contare su un Csm aperto al confronto e disponibile a mettere in discussione anche la pletora di auto- attribuzioni di competenza che ha conseguito o ha posto in essere negli ultimi due decenni.

Attribuzioni che stringono i magistrati in un reticolo di microdisposizioni che nulla hanno da spartire con l’esclusiva soggezione dei giudici alla legge proclamata dalla Costituzione (articolo 101) o con il fatto che lo Statuto ordinamentale deve avere il rango di legge ordinaria ( articolo 108). Restituire la magistratura alla soggezione ordinamentale della legge vuol dire mettere da parte una vastità di disposizioni regolamentari, circolari, direttive, delibere che costituisce la produzione paranormativa del Csm e che tanta attenzione ha avuto sinora solo tra pochi studiosi specialisti della materia.

Il secondo punto delicato riguarda l’efficientamento dei riti civili e penali, attesi a giorni in attesa della pubblicazione dei decreti Cartabia in Gazzetta ufficiale. Molte cose importanti sono state fatte da quel dicastero, ma altre più incisive sono indispensabili per assicurare un’effettiva linea di continuità tra la sistemazione inframuraria della magistratura italiana (direttivi, valutazioni professionali, disciplinare, fuori ruolo, distinzione delle carriere) e i suoi risvolti processuali. La cinghia di trasmissione che salda l’ordinamento al processo è, in realtà, una linea rossa sottile che deve essere ricomposta e riannodata affinché l’organizzazione della magistratura italiana possa restituire, attraverso un processo efficiente, un risultato di qualità che accontenti i bisogni impellenti della collettività.