Non è una casella come tutte. La scelta del ministro dell'Economia è il vero passaggio centrale nella formazione del nuovo governo. Perché sarà lui a dover fronteggiare un'emergenza economica e sociale che rischia di travolgere il governo di centrodestra ancora in culla e perché sarà quel nome la targa che racconterà al mondo che tipo di esecutivo sarà quello guidato da Giorgia Meloni. Per ora il bilancio di giorni e giorni di lavoro è sconfortante: il ministro non si trova, Giorgia riceve solo cortesi rifiuti.

Se si trattasse solo di un nome eccellente che respinge il lusinghiero invito in nome della sua carriera, come nel caso di Fabio Panetta che preferisce restare in pole position per la carica di governatore di Bankitalia, piuttosto che occupare Via XX settembre in un gabinetto di incerta solidità, non si porrebbe un problema politico. Ma quando la lista dei recalcitranti si allunga, quando a esitare sono anche i vari Siniscalco, Grilli e Scannapieco, il quadro si rovescia e il problema politico si profila nitido. Per quanto si tratti di tutti banchieri che dispongono di posti di rilievo e molto ben pagati, la nomina a ministro dell'Economia resterebbe assolutamente appetibile. A meno che non si consideri il governo in questione troppo fragile e debole, esposto a rischi nei tempi molto brevi. In quel caso, infatti, scatta un riflesso di distanziamento, perché nessuno vuole legare la propria immagine a un'esperienza fallimentare.

Ci sono profezie che rischiano di avverarsi per il solo fatto di essere lanciate. La fuga dei papabili ministri per paura della debolezza del governo diventa un segnale preciso che rende quella temuta debolezza effettiva. Per questo Giorgia Meloni ha bisogno assoluto di non presentarsi con una lista dei ministri che veda nella postazione chiave una figura di serie B. Sinora non ha fatto passi avanti e forse a questo punto tutto dipende dal capo dello Stato. Va da sé che nessuno, neppure Panetta, potrebbe sottrarsi a una chiamata di Mattarella in nome dell'interesse nazionale. Sinora quella chiamata il presidente non la ha fatta e non sembra intenzionato a farla. Però è anche vero che il rispetto rigido delle forme istituzionali di Mattarella è noto e che quindi difficilmente si muoverebbe prima ancora del conferimento dell'incarico. Senza il Colle, Meloni dovrà ripiegare su un ministro politico, con il forzista Micciché e il leghista Giorgetti nella rosa dei possibili. Sarebbe comunque uno scacco, anche perché scegliere il secondo, più qualificato e vicino da sempre a Draghi, vorrebbe dire ripartire da zero nelle trattative con la Lega.

C'è un secondo e altrettanto importante elemento che qualificherà il governo: la rapidità e il tasso di autonomia dai partiti della maggioranza con cui la futura presidente incaricata riuscirà a formarlo. Ieri, di fronte all'assemblea degli eletti di Fratelli d'Italia, ha mostrato di esserne pienamente consapevole. Ha detto ai suoi che non è questo il momento di perseguire pur legittime soddisfazioni personali e agli alleati che la ricerca della competenza deve far premio su ogni altra «considerazione secondaria». Sulla disponibilità dei Fratelli va a colpo sicuro. Le devono tutto, miracolo elettorale incluso: in questo momento la leader può chiedergli tutto. Ma con gli alleati il discorso è diverso e la scelta, in buona parte obbligata, di puntare su una squadra efficiente ed efficace si scontra con le regole eterne della spartizione.

Per dar vita a una squadra sul tipo di quella che ha in mente, Meloni non può limitarsi a spartire le poltrone tra i partiti e poi lasciare alle singole leadership il compito di decidere chi le occuperà. Deve mettere bocca sui nomi e proprio questa esigenza è alla base del conflitto, ancor più che con Salvini per l’Interno, con Berlusconi sul caso Ronzulli. Se infatti contro il rientro del capo leghista al Viminale può invocare una quantità di argomenti oggettivi, nella decisione di non assegnare alla pupilla di Berlusconi un ministero di serie A pesano solo i dubbi della premier sulla adeguatezza della forzista.

La partita che in un modo o nell'altro si concluderà nel giro di una decina di giorni è solo la prima sfida che Meloni deve affrontare, e non la più difficile, al contrario. Ma molto di come si comporterà alle prese con la tempesta reale lo si capirà dagli esiti della mano in corso.