C’è una retorica appiccicosa e paternalista che accompagna la rivolta delle donne iraniane contro gli ayatollah. È una proiezione tutta occidentale che corre lungo la rete e i social media, la vedi in filigrana nei tanti messaggi solidali e nelle tante, lodevoli iniziative di sostegno al movimento di protesta. È l’idea secondo cui le giovani ragazze che in questi giorni bruciano i propri chador e hijab nelle piazze, sfidando la repressione feroce del regime, chiedono di vivere “come noi”, che stiano mettendo in causa le fondamenta religiose della repubblica sciita, la cappa dell’islam che le impedisce di girare liberamente per le strade, di iscriversi a Tik Tok o di abbonarsi a Netflix. Ma non è così, la religione non c’entra nulla con la ribellione, che è animata in gran parte da ragazze musulmane. È solo il pretesto con cui viene esercitato il controllo sul loro corpo, uno strumento totalitario di riproduzione del potere.

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La rivolta delle donne iraniane è una rivolta politica

Le donne iraniane sono inferocite con un classe dirigente sclerotica e autoritaria, uno stato di polizia guidato da una gerontocrazia tanto fanatica quanto ipocrita che discrimina gli oppositori politici, i giornalisti sgraditi, le minoranze etniche, che produce inflazione e crisi economica con una disoccupazione giovanile al 30%. Con l’elezione dell’ultraconservatore e giustizialista Raisi la situazione è precipitata, sono aumentati gli arresti arbitrari, gli abusi della polizia morale, e la morte della povera Mahsa Amini è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La loro è una lotta politica, in senso stretto, per la libertà e l’uguaglianza, idee di cui l’occidente non possiede il monopolio, e che affonda le radici nella passato recente dell’Iran. È la nemesi della Rivoluzione del ’79 e delle sue promesse tradite. E non è detto che ci sia un lieto fine perché il film della rivolta non è scritto a Hollywood.