La XVIII legislatura sta per chiudere i battenti, cedendo il passo a quella nuova che, probabilmente, non eserciterà rivendicazione alcuna di eredità politiche e legislative davvero fallimentari, specie sul suo buco nero più evidente: il carcere. La drammatica “conta” dei detenuti suicidi e il suo andamento progressivo, purtroppo, rappresentano una indegna conferma. Se solo consideriamo i giorni complessivi di ciascuna delle cinque legislature che si sono succedute dal 2001 ad oggi possiamo affermare, senza ombra di dubbio, che i 1.634 giorni dell’attuale siano stati davvero giorni “orribili”. In questi 4 anni e mezzo siamo stati costretti, nel silenzio dei più, ad assistere al suicidio di 3 detenuti ogni 4 giorni (1,3 detenuti al giorno). Il più alto tra le legislature di quest’ultimo ventennio. Nemmeno durante i drammatici mesi della improvvisa pandemia il legislatore, pronto per essere archiviato, ha saputo dedicare un’adeguata attenzione al pianeta carcere.

 

Non è un caso se proprio il carcere ha registrato, in questi ultimi anni, episodi di particolare violenza e improvvise rivolte, in numerosi istituti penitenziari, che si pensava appartenessero a un lontano passato. Eppure, nello stesso periodo, per affrontare al meglio le criticità presenti, non sono mancati momenti di studio, di approfondimento, di analisi, a tutti i livelli, anche se, come in un maledetto “gioco dell’oca”, ogni volta ci si è ritrovati, improvvisamente, al punto di partenza. Così il materiale scientifico offerto dagli Stati generali dell’esecuzione penale e il corposo documento conclusivo della commissione ministeriale presieduta dal professor Glauco Giostra, all’ultimo miglio, hanno dapprima subito una dolosa interruzione della gestazione, ad opera dell’allora ministro Andrea Orlando, quindi lo smaltimento definitivo ad opera del suo successore grillino, Alfonso Bonafede.

Siamo, così, giunti all’iniziativa, sicuramente meritoria, dell’ultima (e attuale) ministra della Giustizia, la professoressa Marta Cartabia, che ha tentato di rimettere in circolo, in parte, quelle idee attraverso ulteriori commissioni ministeriali ( dall’architettura penitenziaria affidata all’architetto Luca Zevi, all’innovazione penitenziaria presieduta dal professor Marco Ruotolo).

Insomma, il materiale di studio e l’elaborazione scientifica non mancano. Ne abbiamo pure troppi. Se solo volessero i nostri partner europei, potremmo esportare i nostri voluminosi studi. Adesso esiste un solo obiettivo: approvare interventi di sistema in grado di mettere la parola fine all’illegalità costituzionale dell’esecuzione penale. È inutile ciurlare nel manico. Solo così possiamo davvero sperare di aggredire i nodi strutturali della crisi penitenziaria.

Ma lo si può fare solo attraverso una presa di posizione politicamente condivisa. Come sostenuto dal professor Emilio Santoro in una recentissima intervista, «senza un grande atto di civiltà di tutti i partiti che dovrebbero condividere il principio costituzionale che sancisce il dovere dello Stato di non infliggere trattamenti contrari al senso di umanità, di garantire i diritti fondamentali di tutte le persone detenute e configurare una pena che miri al loro reinserimento sociale» è assolutamente impossibile proporre una grande riforma del carcere, necessaria per rinsaldare la nostra democrazia dal passo incerto. Una sorta di patto costituente tra le forze politiche presenti in Parlamento, oggi non più in campagna elettorale, come già avvenuto agli albori della nostra Repubblica.

Anche allora il carcere mostrava un volto decrepito e tragico. Senza riforme, con strutture ereditate dal regime fascista, impermeabili e isolate rispetto alle vicende della società libera. Con una popolazione detentiva raddoppiata, sino ai limiti insopportabili. Sanguinose rivolte avevano percorso l’intera penisola già tormentata dagli eventi bellici. Roma ( Regina Coeli), Venezia ( con due morti), Milano ( San Vittore), Tonino (Le Nuove) e ancora Milano (San Vittore) avevano registrato le rivendicazioni di detenuti e agenti di custodia. Lentezza dei processi, scarsezza del vitto, condizioni igienico-sanitarie indecorose.

Sembra davvero di rivedere il film dei giorni nostri. E così che, proprio con la I legislatura repubblicana, venne istituita, su proposta dell’illustre giurista e deputato Piero Calamandrei, nel dicembre del 1948, una commissione parlamentare sulle “condizioni dei detenuti negli stabilimenti carcerari” composta da cinque senatori e cinque deputati. Una commissione che, all’insegna del motto turatiano dei primi del ’ 900 “Bisogna aver visto”, avrebbe dovuto, appunto, “vedere” attraverso ispezioni a sorpresa e non preannunciate e con i più ampi poteri istruttori sul personale di polizia penitenziaria e sui reclusi, senza controlli e senza sorveglianza, mutuando proprio le parole dell’onorevole Calamandrei.

Un lavoro intenso che si concluse con una lunga relazione al Parlamento in cui venivano affrontati i principali problemi del settore carcerario e prospettate specifiche soluzioni di riforma. Un lavoro di grande spessore che aveva visto coinvolta e protagonista ogni forza politica. Nessuna esclusa.

Oggi come allora, abbiamo bisogno di una commissione parlamentare di indagine sul sistema penitenziario italiano. Per vedere e toccare con mano, capire e conoscere cosa sia il trattamento detentivo altalenante e a macchia di leopardo, il tempo perduto trascorso, l’ozio forzato, la convivenza asfissiante, la carenza di assistenza sanitaria e psicologica, lo strisciante e mai denunciato regime psico- farmacologico imposto, le condizioni del personale di polizia e di quello amministrativo e tanto altro. Insomma, aprire gli occhi su un mondo poco conosciuto, ma tanto abbandonato.

Perché il “pubblico”, oggi come allora, “non sa abbastanza” e invece avrebbe bisogno di una corretta informazione su un tema ritenuto scabroso. Un lavoro intenso, ma concentrato in sei mesi, in grado di costituire una granitica base politica per un patto costituente sulle carceri, supportando, con riforme legislative adeguate, anche l’azione del prossimo governo, che in tanti auspichiamo più deciso sulla questione. Forse proprio così si potrà offrire una diversa sensibilità al cosiddetto mondo degli uomini liberi, ovvero al mondo, secondo la definizione dell’azionista- socialista Vittorio Foa, “degli uomini che presumono di giudicare del loro prossimo e che sono subito costretti a chiudere disgustati gli occhi sul frutto delle loro malefatte che chiamano giudizi”. (*AVVOCATO, RESPONSABILE OSSERVATORIO CARCERE UCPI)