Carlo Calenda mostra di non crederci molto. Rimane convinto che sia più probabile un suo sbarco su Marte che una riforma costituzionale come quella proposta o immaginata da Giorgia Meloni. Al cui governo egli assegna pochi mesi di vita: il tempo forse della prima e unica conferenza stampa di fine anno. Matteo Renzi dal lontanissimo Giappone, pur con tutta la specializzazione che ha maturato costruendo e demolendo maggioranze, si è mostrato invece più cauto, una volta tanto meno sbrigativo. E anche dall’opposizione ha annunciato che col centrodestra «schiererà un tavolo per fare insieme le riforme costituzionali» perché «siamo sempre pronti a riscrivere insieme le regole».

Peraltro è svanito il pericolo di un’autosufficienza di Giorgia Meloni e alleati su questa strada, cioè di una maggioranza così larga da poter chiudere la partita direttamente in Parlamento con la procedura della doppia lettura prevista dall’articolo 138 della Costituzione, senza la verifica referendaria risultata fatale a precedenti tentativi riformisti di Silvio Berlusconi e dello stesso Renzi.

La disponibilità di quest’ultimo a partecipare a un’organica, profonda modifica del sistema costituzionale invecchiato di oltre settant’anni - si vedrà di che tipo particolare di presidenzialismo, fra i vari esistenti altrove o da inventare appositamente per l’Italia, magari chiamandolo in latinorum come si è disgraziatamente fatto con le leggi elettorali- trova il Pd nella solita posizione scomoda di distrazione.

La strada che il partito erede delle sinistre comunista e democristiana, più cespugli verdi e radicali, ha imboccato con l’annuncio delle dimissioni del segretario Enrico Letta e la prospettiva di un congresso straordinario è quella dell’inseguimento di Giuseppe Conte. Che riconosce, bontà sua, alla destra di avere vinto le elezioni, ma non rappresentatività necessaria per fare certe cose.

Meno male che Ciriaco De Mita riposa in pace da maggio. È morto in tempo per risparmiarsi il funerale del suo “arco costituzionale” di sinistra e il concepimento, quanto meno, di uno di segno opposto. Previsioni, queste, da sole sufficienti a dimostrare che gli obiettivi di efficientamento della giustizia - proclamati a gran voce dagli addetti ai lavori - giammai potranno essere conseguiti in attuazione di un nuovo impianto normativo che, anziché definirsi “epocale”, si rileverà del tutto inefficace e foriero di plurime incertezze interpretative.

Si deve prendere atto, purtroppo, che l’attuale governo si è limitato a ridefinire il “layout” del sistema giustizia, senza prendere posizione alcuna sull’organizzazione degli uffici giudiziari, sulle carenze sempre più gravi di organico e sulla responsabilizzazione di tutti gli operatori del diritto, compresi i magistrati. Auspichiamo che il nuovo Parlamento ascolti la voce dell’avvocatura e adotti i giusti correttivi al decreto, ma soprattutto dia avvio ad una vera stagione dell’efficienza della giustizia.