La gogna mediatica è in grado di provocare danni inimmaginabili. Lo sa bene l’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo. La vicenda giudiziaria nella quale è stato coinvolto qualche anno fa si è conclusa da pochi giorni. Bellomo è stato prosciolto dal Tribunale di Bergamo “perché il fatto non sussiste”. Nel 2017 l’ex magistrato venne accusato di stalking e violenza privata ai danni di tre borsiste che frequentavano i corsi della scuola per magistrati “Diritto e scienza”. Bellomo fu sottoposto agli arresti domiciliari. Tutto ebbe origine da un’inchiesta della Procura di Bari: dal capoluogo pugliese si volle far luce su alcuni aspetti dei corsi diretti da Bellomo, il quale era solito chiedere alle aspiranti magistrate presenti alle sue lezioni di rispettare un codice di comportamento ed un dress code. In quest’ultimo caso erano previsti tacchi alti, minigonne e tailleur eleganti. Ora i giudici di Bergamo hanno restituito un po’ di serenità a Francesco Bellomo, che, comunque, ha visto offuscata la sua immagine di magistrato, brillante docente e uomo. Cosa non rara in Italia, dove alcune inchieste e le amplificazioni giornalistiche che ne derivano – con le condanne preliminari inflitte da certa stampa – sono in grado di danneggiare, se non distruggere, chi finisce nel tritacarne mediatico. «Francesco Bellomo – commenta il suo difensore, Beniamino Migliucci - è stato sottoposto ad una vera e propria gogna mediatica. La vicenda che lo ha riguardato è emblematica per i caratteri generali sui danni del processo mediatico. Si costruisce l’idea di una persona colpevole persino al di là di ogni ragionevole dubbio per via di questo processo che presenta un carattere inquisitorio ed autoritario. È inquisitorio perché si fonda sugli elementi raccolti dall’accusa, senza un contraddittorio; è autoritario perché non rispetta le regole del giusto processo. Si fonda solo sugli elementi dell’accusa, senza che la difesa abbia potuto spiegare le proprie ragioni, senza che un giudice si sia pronunciato. Nel caso del dottor Bellomo, ogni volta che ci siamo trovati davanti ad un giudice ci sono stati orientamenti molto chiari. Un procedimento è stato archiviato a Milano, è stata pronunciata una assoluzione a Piacenza e da ultimo l’assoluzione di Bergamo in sede di udienza preliminare». L’avvocato Migliucci riflette sulle conseguenze dell’accanimento mediatico. «Parliamo di danni – dice l’ex presidente dell’Unione camere penali – di diverso tipo. Riguardano la vita professionale e la vita privata. Per esempio, il magistrato Davide Nalin, coimputato, è stato sospeso e Bellomo è stato destituito. Per un periodo è stato inibito dal fare le lezioni nella scuola che dirigeva con successo con un danno pure sul versante economico. Nel nostro Paese si dà più importanza, sbagliando drammaticamente, agli elementi raccolti dalla accusa, alle indagini, rispetto alle sentenze. In Italia, sotto il profilo dell’opinione pubblica e dei social, si ritiene che la verità è quella che proviene dalle indagini, che quelle siano prove. Non è così. Bisognerebbe, prima di tutto, che la stampa avesse l’accortezza di evidenziare che quelle raccolte dal pm non sono prove, ma sono meri elementi per sapere se l’accusa può essere sostenuta in giudizio. Quando, poi, arriva una sentenza, come quella che ha interessato Bellomo, non si dà la necessaria importanza e non si comprende che quello è il momento fondamentale. Perché enfatizzare il momento dell’accusa e non valorizzare il momento della sentenza e della verità?», si chiede il penalista? Nella vicenda giudiziaria dell’ex consigliere di Stato i confini tra giustizia e morale sono spesso indefiniti, vengono confusi e considerati un unicum. «Un conto possono essere – conclude Migliucci – delle valutazioni etiche e morali, tenendo conto di chi le fa, dei tempi e dei presupposti. Un’altra questione riguarda, invece, l’accertamento dei reati. Ci possono essere delle condotte che vengono dai più ritenute moralmente non adeguate, ma che non sono reati. Il giudice di Piacenza prima e quello di Bergamo poi hanno verificato proprio la diversità tra la morale e i reati. I procedimenti che hanno interessato Bellomo sono stati perniciosamente invasi dalla confusione tra valutazioni sui metodi ritenuti inadeguati, una contaminazione tra presunta morale, etica e reati. Il dottor Bellomo, fino a quando non è stato travolto dalle vicende giudiziarie, era un giudice apprezzatissimo del Consiglio di Stato e la sua scuola aveva una percentuale molto alta di superamento degli esami a riprova dei metodi di studio efficaci».