I famosi mercati, temutissimi per l’Italia e il suo stratisferico debito pubblico, per ora stanno a guardare, tanto che lo spread sonnecchia attorno alla draghiana quota 250. Perché i mercati amano la stabilità, di qualsivoglia colore politico, e le elezioni hanno dato un risultato netto: ha vinto la coalizione di destra, e Giorgia Meloni in misura così consistente (anche rispetto a Salvini e Berlusconi) che si può dar per scontato il conferimento dell’incarico a lei da parte di Sergio Mattarella.

Cosa che dovrebbe avvenire a metà ottobre, dopo l’insediamento delle Camere e l’elezione dei rispettivi presidenti, velocizzando il più possibile il varo del nuovo governo. Oltre alle scadenze tecniche tra Nadef e nuova legge di bilancio, par di capire che, per ovvi motivi, il Quirinale preferirebbe evitare che il giorno dell’insediamento del governo Meloni possa coincidere con quello del centenario della marcia su Roma.

Ma una volta nato l’esecutivo, non ci sarà nessuna luna di miele, i famosi 100 giorni di vento in poppa che accompagnano ogni nuovo governo. Perché a quel punto le agenzie di rating - occhiute sentinelle dei famosi mercati di cui sopra- avranno saputo quel che serve loro per emetter sentenza: come sarà composto il governo, e anzitutto chi siederà all’Economia. Anche perché da quella scelta verranno indicazioni sui destini dei fondi PNRR, e sulla Legge di Bilancio.

Certo anche per i tempi stretti, ma non a caso da Fratelli d’Italia son prima filtrate fantasiose speranze che potesse rimanere al suo posto Daniele Franco, poi (con maggior realismo) l’eventualità di offrire quell’incarico all’ex Banca d’Italia e oggi Bce Fabio Panetta (che è il vero candidato a sostituire Ignazio Visco in scadenza come governatore di Via Nazionale).

Poi Guido Crosetto - che di Meloni è il vero Lord protettore sul fronte dei rapporti coi ceti produttivi e sui temi di politica economica in generale- ha cominciato a chiedere a mezzo stampa di fatto aiuto a Draghi: se gettasse le basi lui entro il 15 ottobre della nuova Legge di Bilancio, con la UE che ha giusto accordato 45 giorni di proroga fino a fine novembre per presentarla a Bruxelles, e se sempre Draghi presentasse già questa settimana la Nadef (cosa già prevista) il nuovo esecutivo nascerebbe di certo con meno pressioni sulle spalle.

In attesa della lista dei ministri, ma in questo caso a cominciare dalla Farnesina, sono come ovvio anche tutte le Cancellerie. Che la premier in pectore abbia disdetto la rituale conferenza stampa di commento alla vittoria, inviando al suo posto tre maggiorenti del partito, è imputabile proprio al voler evitare di rispondere a quesiti scomodi da parte dei grandi media internazionali, che erano accorsi in massa all’hotel dei Principi, su Orban, Le Pen, sui rapporti dell’alleato Salvini con Putin.

Ma proprio in quell’occasione il parlamentare Lollobrigida - che di Meloni è anche il cognato - ha ribadito che «la Costituzione è bella, ma ha settant’anni, va rivista» e, senza star troppo a distinguere, «faremo il presidenzialismo o il semipresidenzialimo». Due cose molto diverse tra loro, e la seconda ha sin qui trovato la ferma opposizione di Silvio Berlusconi ininterrottamente dal 1997 (ma certo poi il Cavaliere potrebbe anche cambiare idea).

Il punto è che il netto successo elettorale non pone la coalizione di destra in condizione di riscrivere la Carta comune a suo gradimento, e senza neanche chiedere via referendum confermativo il permesso agli italiani: FdI, Lega e FI hanno in totale 237 deputati e 115 senatori. Ben lontani dai 2/ 3 delle assemblee che le riforme costituzionali richiedono, anche se si avvantaggiassero dei voti dei calendian-renzisti (Renzi ha già fatto sapere di essere disponibile a discutere con Meloni di presidenzialismo, ma per ora la premier in pectore sul punto non gli ha risposto).

E sempre i famosi mercati non hanno al momento fatto il pollice verso proprio perché l’aver vinto ma non stravinto le elezioni non mette in condizione di varare una riforma unilaterale della Costituzione (come annunciato in campagna elettorale) che rischierebbe di essere una fonte di instabilità di primissimo livello.

Cosa poi potrà fare la coalizione di governo con la sua maggioranza, che ove non fosse percorsa da instabilità interna le consentirebbe di varare a maggioranza semplice qualunque decreto o legge ordinaria, non è dato sapere ed è impossibile la prevedere. Perché il programma della coalizione contiene solo formule generiche. Vi si propone ad esempio la riduzione della pressione fiscale per famiglie, imprese e lavoratori autonomi, ma non si dice come. Si parla di flat tax ma non si spiega come (ha dei profili di incostituzionalità) e in che misura, e via dicendo. Di chiaro c’è solo il no alla patrimoniale ( ma quale? In Italia una patrimoniale c’è e si chiama Imu) e la “cancellazione o la profonda revisione del reddito di cittadinanza”, contro le quali proprio ieri si è schierata la Conferenza Episcopale italiana.

Di certo, con le ambizioni espresse e con la situazione data tra Pnrr, possibile scostamento di bilancio, crisi energetica e guerra in Ucraina, è un bene che il passaggio di consegne da parte di Mario Draghi si svolga con particolare cura: perché la Finanziaria che il governo Meloni si troverà ad affrontare sarà di 40 miliardi, cosa da far tremare polsi neofiti. Meglio impostarla “a quattro mani” con Draghi. E pazienza se gli si era fatta fiera opposizione in Parlamento fino a un minuto prima.