«Quando si conoscono i sopravvissuti di tre generazioni distrutte dalla guerra è difficile rimanere con le mani in mano», dice il giovane avvocato Achille Campagna, italiano ma nato a San Marino, dove esercita. «Per la verità già nel marzo di quest’anno, di fronte alla massa di rifugiati ucraini, anche in Italia, mi era parso possibile aiutarli raccogliendo le loro storie per poi eventualmente farle confluire nelle azioni contro i crimini di aggressione, genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità perpetrati da Putin e dalle forze armate russe. Misi in campo diverse iniziative, ma ben presto questa raccolta si rivelò del tutto improduttiva se non impossibile: verificare i racconti, mettere insieme le prove, anche il solo raccogliere i mandati nella forma giusta era una faccenda molto complessa, che non si poteva fare in Italia a migliaia di chilometri dal luogo in cui le tragedie si erano verificate. Così decisi che dovevo andare direttamente là sul posto».

E ci sei andato da solo?

Sì, sono partito da solo, in luglio, ma avevo già contattato un collega ucraino, Olexy Yasyuntesky, che lavora nel nord del paese, e con lui siamo andati direttamente sui luoghi in cui erano avvenuti i peggiori misfatti. Questo avvocato, animato dal mio stesso intento, ha reso e sta rendendo possibile il mio lavoro in Ucraina. A Bucha, per esempio, subito dopo i massacri e poi a Irpin, Zhytomyr e Malyn. Qui abbiamo ascoltato i racconti delle uccisioni a sangue freddo di persone e animali, le famiglie decimate, i cadaveri dei mariti su via Yablunska, le granate messe sotto i corpi per impedirne la sepoltura, il dramma dei corridoi umanitari, o di coloro che nei bombardamenti russi avevano perso parenti, casa, ogni bene. Oppure sindaci delle città bombardate che avevano visto saltare in aria le loro scuole e i loro ospedali. Abbiamo creato dei file con foto, date, nomi, testimoni e quant’altro ed è stato possibile anche raccogliere i mandati per diversi tribunali internazionali.

Per farne cosa?

Per portare queste vittime e queste tragedie di fronte alle corti internazionali, soprattutto. Abbiamo già depositato una trentina di casi davanti alla Corte Penale Internazionale dell’Aja e quattro casi di fronte alla Corte di Strasburgo.

Ma ci sono difficoltà: per esempio, i tempi dell’Aja. I pessimisti sostengono che non verranno presi in considerazione prima di dieci anni e per la CEDU c’è il dato che la Russia si è ritirata dal Consiglio d’Europa e quindi anche dalla giurisdizione della Corte.

All’Aja speriamo si attivino “corridoi speciali” per i crimini in Ucraina e i tempi si riducano ad un paio d’anni. C’è poi il problema del reato di aggressione, che dovrebbe essere perseguito da un tribunale speciale di cui si parla da tempo; questo tribunale dovrebbe avere poi giurisdizione anche su tutta una serie di casi che non verrebbero comunque giudicati dalla CPI, che normalmente non si occupa del ‘soldato’. Quanto al ritiro della Russia dal Consiglio d’Europa, la giurisdizione della CEDU non cessa alla data del medesimo, ma è pacifico che essa permane almeno per sei mesi (i cosiddetti “sei mesi di preavviso”) e quindi molti dei crimini – quelli di Bucha, per esempio – ci rientrano pienamente.

Tu sei andato molto vicino ai luoghi dei combattimenti e dei bombardamenti, puoi dirci qual è il clima in cui vive la gente? E valeva la pena che tu ti accostassi così ad un pericolo reale per mettere in piedi azioni che vedranno la luce fra molto tempo?

Ho notato questa incredibile forza d’animo e attaccamento alla patria, io ed Olexy abbiamo abbracciato un paio di vittime in lacrime, sì, ma non ho mai sentito pronunciare una lamentela. Al contrario, questa gente vuole che i russi paghino e pensa a riprendersi i territori occupati, cedere terreno non è un’opzione per loro. Per il resto, le sirene suonano, i razzi cadono – anche se non sono stato coinvolto in alcun bombardamento – e lo stress per gli abitanti è grande. La valigia per andarsene dalla città è sempre pronta. Francamente non penso di aver corso troppi rischi nel fare quello che ho fatto, va detto che ho un supporto logistico eccellente da parte di alcuni imprenditori di origine ucraina e di Olexiy. Sto imparando l’Ucraino inoltre. Ovviamente ne è valsa la pena, sia per me che per loro. Per me, al di là della incredibile esperienza sotto il profilo umano, per constatare, toccare con mano, capire la sincerità, nel senso di sincerarsi di avere di fronte delle situazioni reali, per loro, allo stesso modo, per dare un volto a chi dice di aiutarli ed acquisire fiducia in questa persona.

Tornerai in Ucraina? Con quali progetti?

Penso di tornare molto presto e comunque sono in contatto con i colleghi di laggiù. Abbiamo poi in mente una formula per finanziare nuovi ricorsi, ulteriori alle domande in CPI, nell’ambito della strategic litigation, precisamente svilupperemo casi individuali o collettivi con l’obiettivo primario di aprire la porta ad un rimedio effettivo contro le violazioni della legge umanitaria, dunque indurre un cambiamento nel diritto internazionale di cui potranno beneficiare tutte le vittime – non solo quelle ucraine. Sto pensando di sviluppare per primi alcuni casi individuali estremamente gravi che sono stati oggetto di attenzione da parte dei media internazionali. Poi – ed è il progetto che più mi sta a cuore –vorremmo stendere una vera e propria Carta dei Diritti delle Vittime Ukraine, che fissi gli standard per riconoscersi come vittime ed avere accesso alle giurisdizioni e alle forme di compensazione, sia morale che economica: un progetto che dovrebbe coinvolgere anche accademici, magistrati sia italiani ed europei che quelli delle giurisdizioni internazionali. Stiamo lavorando ad un white paper per una riforma del genere, assieme a me ci sono altri.