C’è una sorta di irritazione verso il Sud, da parte di sondaggisti e commentatori politici – il Sud sembra non voglia comportarsi elettoralmente secondo le loro previsioni. Dapprima, fu l’astensionismo – ah, crescerà, spaventosamente, e sarà soprattutto al Sud. Smentito. Poi, fu il recupero del Pd che se diventava primo partito lo avrebbe dovuto al Sud – smentito. Poi, Salvini che avrebbe visto finalmente coronato il suo sogno di “partito nazionale”, su cui si basa la sua segreteria – smentito. Poi, il crollo dei Cinquestelle, che se arrivavano a malapena alla doppia cifra era grasso che colava – smentito. Poi, Berlusconi con le sue pensioni a mille euro, meglio delle dentiere gratis, e dove avrebbe pescato se non al Sud, che sono tutti sdentati, si sa – smentito. L’unica cosa che è rimasta stabile e incontrovertibile è l’avanzata della Meloni – ma sulle percentuali di questo successo, chissà.

Preso atto di questa “illeggibilità” del prossimo venturo comportamento elettorale dei meridionali, il passaggio successivo è stato che – i meridionali, si sa, votano per convenienza. E che, i meridionali, potrebbero mai votare per appartenenza, entusiasmo seppure momentaneo, ideologia, ideale o calcolo politico? Quando mai: i meridionali sono venali, mica come i padani che gettano il cuore oltre l’ostacolo. E il passaggio successivo è stato – ma li vedi tutti questi leader che si buttano per strade e vicoli e piazze del Sud a lisciare il pelo ai meridionali, promettendo mari e monti, invece di spiegare che il loro prossimo futuro sarà solo “lacrime, sudore e sangue”, dio che disdoro, signora mia come è scesa in basso la politica. Io vorrei davvero che qualcuno me lo citasse un crudo “Churchill all’italiana” che non abbia mai fatto altro che promesse. Traslato quindi il “familismo amorale” dei meridionali in “elettoralismo amorale” dei meridionali medesimi e dei leader politici nazionali – il più è fatto: manca solo la proposta di invalidare il voto dal Garigliano in giù. Questa "scoperta elettorale" del sud come luogo – ohibò – dove si possono ribaltare tutte le previsioni della vigilia e dove tutti i leader si vanno giocando le carte del successo a me sembra un po’ da memoria corta. Vorrei perciò ricordare che nelle ultime tornate elettorali i 5stelle hanno praticamente preso un voto su due in Calabria e Puglia e più di uno su tre in Sicilia, e da qui partono; che il Pd non ha mai avuto vita facile al Sud, e da qui parte; che la destra pre-fascista e post-fascista vanta una lunga tradizione di un consistente bacino di voto, e da qui parte; che Salvini ha provato e riprovato il "partito nazionale" ma, a esempio, nelle ultime comunali in Sicilia non è andato da nessuna parte oltre il 5 percento, e da qui parte. Il quadro, insomma, che più o meno viene "scoperto" adesso. In più agli smemorati di Collegno ricorderei che negli anni Settanta dell'Ottocento la sinistra per la prima volta va al potere perché nel 1874 sfonda elettoralmente in Sicilia – nella sorpresa generale. Che al referendum monarchia-repubblica è vero che in Sicilia vince la monarchia ma la quantità di voti raccolti dall'opzione repubblicana, che arriveranno per ultimi al Viminale, sarà determinante perché vinca nazionalmente. Ancora: nel 1947 il 'Blocco del popolo' di socialisti e comunisti, quello con la faccina di Garibaldi, è il primo partito e la Dc è solo seconda. Insomma, non è da oggi che la Sicilia c’è quando ci deve essere.

Certo, poi ci sarà da ricordare anche il 61 a zero di Berlusconi del 2001 – ma direi: appunto, per chi voglia davvero riflettere sulle cose e non spiegare il ventennio berlusconiano solo perché aveva le televisioni con Iva Zanicchi e Raimondo Vianello che lo sponsorizzavano elettoralmente.

Ho come il fondato sospetto che i sondaggisti, come buona parte dei commentatori politici, siano lì a pensare ai siciliani e ai meridionali come dei boccaloni o, peggio ancora, degli inguaribili assistiti che cercano solo qualcuno che gli assicuri il congenito fancazzismo.

Siamo perciò passati dallo storico “voto di scambio” che caratterizzava il Sud nel giudizio aspro dei sopracciò (le filiere clientelari, i pacchetti di voto che si spostano con lo spostarsi dei capo-bastone di tessere eccetera) o a quell’indifferenza verso la vita politica e istituzionale che si pronunciava con l’alta percentuale di assenteismo, perché, si sa, la civicness non è mai arrivata al Sud, al più prosaico e pagano “voto per la saccoccia”. Il fatto che proprio al Sud con quell’enorme sostegno che nel 2018 fu dato ai Cinquestelle si fossero rotte le dighe delle filiere di controllo (anche mafioso) e dell’indifferenza atavica, come si giudicava – non è stato mai preso abbastanza in considerazione per quel che significava: una cosa buona. Quel voto – nella considerazione generale, anche al Sud perbacco, di crisi e di delusione che i Cinquestelle hanno portato con sé – non è “rientrato”, ma rimane fluido, come d’altronde è in generale dalla fine dei grandi partiti di massa che assieme raccoglievano oltre il 60 percento degli elettori, e in parte si attesta. Ma smettetela di dire che chi vota Cinquestelle lo fa perché intasca il reddito di cittadinanza! Vi basterebbe confrontare i numeri, tra i percettori del reddito e i voti ai Cinquestelle al Sud, no?

Rimane il fatto che il Sud aspetta. C’è stata una importante presa di posizione di politici e intellettuali meridionali contro il progetto di autonomia differenziata portato avanti da alcuni governatori del nord – Fedriga, Zaia, Fontana, leghisti, ma anche Bonaccini – definito come la “secessione dei ricchi”; sembrava si fosse arenato, ora pare di nuovo tornato nei programmi elettorali: Salvini è andato addirittura a rivendicarlo e spiegarne le bontà a Crotone. È un progetto che aumenterebbe ulteriormente la distanza economica tra il Sud e il Nord. Chi era critico dell’autonomia differenziata diceva che la soluzione sta nella “doppia locomotiva”, al sud e al nord. Non sembra ci siano orecchie che intendano. Né i progetti intorno al PNRR sembrano declinati a colmarla questa distanza: per lo più si parla di opere pubbliche (tra l’altro con il rigurgito del Ponte sullo Stretto, benché la Commissione europea abbia più volte fatto capire che non rientra proprio nei parametri di decisione); siamo cioè molto lontani, proprio come “visione” e dalla Cassa per il Mezzogiorno (che intervenne decisamente nella modernizzazione dell’agricoltura) e dall’intervento straordinario dello Svimez. Tutta discutibile oggi, storicamente, quella “industrializzazione senza sviluppo”, quelle cattedrali nel deserto, ma di certo significarono davvero una velocizzazione delle trasformazioni al Sud.

È un po’ impietoso – questo sì – il confronto tra diverse visioni che pure c’erano nella battaglia politica di allora rispetto le sorti del Sud e il “dibattito” attuale che vede una sola linea del Piave: chi è d’accordo con il reddito di cittadinanza e chi è contrario. Un po’ di immaginazione al potere – ne abbiamo?