di Giuseppe Criscenti*

Tra gli aiuti che il Governo ha dispensato in extremis, con omonimo decreto, ve ne è uno di non poco rilievo: si partecipa al concorso in Magistratura subito dopo la laurea, senza frequentare corsi di specializzazione, tirocini o altre forme di approfondimento. Come negli ultimi anni, lo scopo di questa ennesima riforma è fare prima possibile nel modo meno dispendioso possibile, avere più numeri a disposizione per fare altri numeri. Il passato conosce espedienti analoghi: due prove scritte anziché tre, tempi ristretti alle Commissioni per valutare le prove, preselezioni informatiche con test a risposta multipla, fino a quando si è pensato, e non era in astratto un’idea cattiva, di imporre dopo la laurea un percorso formativo, anche pratico, per poter partecipare al concorso.

Del resto, quella della formazione post laurea è la soluzione dei paesi più assennati, e più attenti alla delicatezza delle funzioni che il magistrato dovrà svolgere. In Francia non si accede al concorso subito dopo la laurea e solo con essa: è necessario un esame per accedere alla Scuola Nazionale della Magistratura, superato il quale si fa un anno di esperienza, poi un esame per accedere ad un secondo anno di esperienza, ed infine l’esame finale. Complessivamente due anni dopo la laurea, durante i quali c’è una seria valutazione dei candidati. In Germania, dopo la laurea, c’è un percorso formativo comune alle professioni forensi, poi, previo esame di stato, si accede ad una formazione annuale, ed infine serve un ulteriore esame di stato per diventare magistrato o avvocato o notaio.

Il Portogallo ha un sistema pressoché identico al francese, ed anche in Spagna, dopo la laurea si accede ad un corso- concorso, solo all’esito del quale, si può fare l’esame. Anche nei Paesi di Common Law, dove non c’è concorso, non si diventa magistrati il giorno dopo la laurea: la scelta cade tra gli esperti legali che hanno una significativa esperienza nel rispettivo ambito. In conclusione, nessuno dei paesi occidentali affini al nostro consente di accedere in magistratura semplicemente con un esame, senza adeguata formazione post laurea.

A fronte di questo dato, del tutto irrilevante mi pare l’argomento che le scuole italiane post universitarie hanno fallito, e con esse le altre forme di tirocinio: hanno fallito perché, a differenza di quanto accade da decenni in Francia ed in Germania, non erano previsti esami. Bastava la frequenza, non era necessaria una verifica costante del candidato, che da noi non era neanche in astratto prevista, ed era prevedibile che quegli anni di formazione diventassero una formalità. Altrettanto irrilevante obiettare che, fino a poco tempo fa, si accedeva solo con la laurea, senza alcuna formazione successiva: erano altri tempi, in cui i laureati avevano una formazione concettuale adeguata al mestiere da svolgere, e ricordo peraltro che fino agli anni settanta c’era un ulteriore esame, dopo l’ingresso in Magistratura, per essere confermati.

I programmi universitari erano completi, consentivano conoscenze e saperi sufficienti, e la Giurisprudenza era un sistema di significati meno complesso di oggi. Già di quel sistema si poteva dire che era sbagliato, ma aveva il suo tempo. Consentire oggi di accedere in Magistratura con il solo esame di laurea vuol dire innanzitutto aprire l’ingresso a chi si è laureato, nella migliore delle ipotesi, su programmi ridotti, imposti dal sistema dei crediti, e, nella peggiore, senza aver mai aperto un manuale, semplicemente ascoltando una breve video lezione illustrata da slides. E non vale neanche obiettare che laureati del genere saranno scartati dal concorso, per l’ovvia ragione che i concorsi alla fine si adeguano: se su 2000 candidati se ne presentono 1500 di quella fatta, è inevitabile imbarcarne la maggioranza.

Del resto, le riformette degli anni duemila (preselezione informatica, due prove scritte soltanto, dislocamento delle commissioni) erano proprio conseguenza del mutamento della domanda, per dirla brutalmente. Una seconda osservazione si impone: lo iato che c’è tra le Università e la Magistratura è epistemologico, mi si passi il termine.

Oggi la Giurisprudenza è, tra le pratiche culturali, la più autoreferenziale: produce da sé il proprio sapere, che è diverso da quello impartito a chi vuole accedervi. Oggi, un bravissimo giudice tedesco o francese non saprebbe scrivere una sentenza come la prassi italiana la pretende. Non perché non sia bravo, ma perché la decisione italiana è frutto di “punti di vista interni”, e soprattutto ha un suo linguaggio: parentetiche, subordinate, sintassi elucubrata. E questo sapere non coincide con quello che si acquisisce all’Università. Poiché è vana speranza pensare che questo abito curialesco venga mutato in meglio, è di ragione ammettere che chi si è laureato su un certo sapere, per acquisirne un altro, deve essere ulteriormente istruito.

Io sono convinto che il Ministro queste cose le sa perfettamente, come le sapevano i legislatori precedenti, ma sa anche che è politicamente scorretto dirlo ai ragionieri. Perciò questo provvedimento si chiama Decreto Aiuti (*Consigliere di Cassazione)