Se il Report americano sui finanziamenti russi a partiti di mezzo mondo al fine di condizionarne le politiche sia una mezza bufala propagandistica oppure sostenuto da elementi solidi, se si tratti solo di un primo passo o del risultato finale dell'inchiesta, lo sapremo in qualche giorno e sarebbe comunque molto meglio avere un quadro chiaro prima delle elezioni del 25 settembre. Arrivare alle urne in un clima di sospetti in attesa di conferme concrete sarebbe del tutto inaccettabile, indipendentemente da quanto la vicenda possa effettivamente condizionare la scelta degli elettori.

Un elemento però sembra essere già del tutto palese: la valenza implicita di avvertimento che inevitabilmente veicola il Report, piovuto tra le elezioni in Svezia vinte dalla destra e quelle italiane nelle quali si prevede esito identico ma qui senza testa a testa. La destra italiana resta una sorvegliata speciale della quale Washington e Bruxelles diffidano. L'atlantismo antiputiniano di Giorgia Meloni è troppo recente e troppo politicamente opportuno per essere accreditato a scatola chiusa. L'europeismo della leader sovranista è malcerto a essere generosi. La presenza in coalizione di Salvini, sul quale grava il pollice verso sia degli Usa che della Ue, rende un'occhiuta sorveglianza ancora più necessaria.

Solo casi di estrema ingenuità possono pensare che per un governo europeo la tolleranza, seppur non il gradimento, degli Usa, della Ue e della Nato sia un fattore trascurabile. Di certo non pecca di quella ingenuità Giorgia Meloni che infatti nuota vigorosamente controcorrente da mesi per restaurare la propria immagine rendendola quanto più affidabile possibile. In parte ce l'ha già fatta. In parte può migliorare le posizioni in futuro. Ma il raggiungimento completo dell'obiettivo almeno per ora e ancora a lungo è irraggiungibile. La realtà è che se vuole governare, a maggior ragione dovendolo fare anche con i voti di Salvini, la leader di Fratelli d'Italia deve poter contare su uno o più garanti che ne attestino con la loro presenza ai vertici istituzionali la credibilità agli occhi sospettosi dei potenti partner.

Se Meloni sarà premier, diventerà dunque essenziale scoprire con chi occuperà le caselle nevralgiche, Economia, Esteri e Difesa. Ma in ogni caso non può essere solo la squadra, neppure se di provata fiducia, a fare il miracolo. Il garante deve essere il capo dello Stato e dunque sarà Sergio Mattarella a scegliere se svolgere quel ruolo di persona, come è certamente in grado di fare, o se passare la palla, magari non subito ma in tempi relativamente brevi, a Mario Draghi.

Oggi in un'ascesa di Draghi alla presidenza, ove Mattarella decidesse di non portare a termine il secondo mandato, nessuno avrebbe più interesse e vantaggi della leader di Fratelli d'Italia. Nel gennaio scorso i suoi pochi voti sarebbero stati aggiuntivi e superflui. Oggi potrebbe rivendicare il merito di aver mantenuto in campo, e in postazione essenziale, il leader la cui uscita di scena è massimamente temuta proprio nei palazzi del mondo che guardano al 25 settembre con maggior inquietudine.

Draghi sarebbe il presidente di quasi tutti. Forse gli voterebbe contro solo il M5S di Conte e non è neppure detto. Ma sarebbe soprattutto il presidente di Fratelli d'Italia e del Pd, perché sarebbero queste le colonne portanti dell'operazione. Sergio Mattarella, eletto senza i voti di Fratelli d'Italia, sarebbe per Meloni una garanzia meno automatica, da conquistarsi passaggio per passaggio, forse non senza tensioni. E tuttavia in grado quanto Draghi di svolgere quel ruolo delicatissimo che inevitabilmente ricadrà sul Colle nel probabile caso di una vittoria netta della destra.

L'allarmismo del Pd su un complotto per sostituire Mattarella con un presidente espresso dalla sola destra è palesemente una sciocchezza. Per muoversi in quella direzione Giorgia Meloni dovrebbe nutrire istinti suicidi ai quali ha già dimostrato di essere invece immune. La posizione di Mattarella è solidissima e lo sarà ancora di più dopo le elezioni. Dunque sarà lui a dover scegliere se giocare di persona una partita essenziale per l'Italia oppure affidarla al solo nome oltre al suo in grado di sobbarcarsi l'impresa: il premier uscente. Sempre che quest'ultimo sia ancora disponibile.