La crisi italiana è di sistema, non solo politica e dunque per definizione transitoria: non c'è esponente politico che, senza neppure bisogno di essere messo troppo alle strette, non lo ammetterebbe. Affrontare e risolvere una crisi di sistema senza mettere mano alla architettura istituzionale forse non è impossibile sulla carta ma, soprattutto in un Paese di non antiche tradizioni democratiche come l'Italia, è tanto difficile da essere impossibile nei fatti.

La crisi, latente almeno da quando il referendum sulla legge elettorale del 1993 abbatté un sistema omogeneo al modello istituzionale disegnato nella Costituzione, è degenerata progressivamente sino a rivelarsi in tutte le sue macroscopiche dimensioni nell'ultima legislatura, con il suo surreale valzer delle alleanze. In questi 29 anni si sono susseguite diverse riforme costituzionali, in due casi bocciate e in due confermate dal referendum popolare.

Solo la riforma del centrodestra affossata dal referendum del 2006 però aveva vaste ambizioni e scontava il limite esiziale di essere stata imposta, nonostante il suo carattere complessivo, da una sola parte politica in quel momento maggioritaria. Il solo tentativo davvero credibile di rivedere profondamente la seconda parte della Costituzione coinvolgendo tutto il Parlamento e non solo la maggioranza è stato la bicamerale presieduta tra il 1996 e il 1998 da Massimo D'Alema. Fallì e non arrivò mai a definire una proposta da sottoporre al vaglio del Parlamento e poi del Paese ma, caso unico, ci provò sul serio.

Il riassuntino basta a spiegare perché le riforme istituzionali, avendo la crisi di sistema oltrepassato il punto di non ritorno, non dovrebbero essere adoperate in campagna elettorale come occasione per scambiarsi sciabolate propagandistiche ma dovrebbero, al contrario, configurare pur nel pieno dello scontro elettorale, il terreno comune di ricerca necessario per superare nella prossima legislatura, chiunque sia al governo e con qualsiasi maggioranza politica, il vicolo cieco nel quale si dibatte il sistema intero, cioè la democrazia italiana. Non è così e parte rilevante della responsabilità ricade sulle spalle del Pd. Il segretario di quel partito agita da settimane lo spettro di un colpo di mano con cui la destra, se ottenesse il 66 per cento dei seggi, potrebbe cambiare la Costituzione da sola e senza passare per il referendum confermativo.

Si tratta di una preoccupazione comprensibile, anche se al momento nulla indica una volontà della destra di muoversi in quella direzione e il continuo allarme su una cospirazione per sloggiare Mattarella dal Quirinale anzitempo appare come una fiaba nera con finalità elettorale. L'idea che si possa delegittimare un presidente rieletto da una maggioranza oceanica giustifica la parola greve con cui la ha bollata Calenda. Per non essere solo una trovata elettorale, però, quella preoccupazione in sé non infondata dovrebbe portare naturalmente ad avanzare la richiesta di un impegno comune di tutti, dopo le elezioni, a cercare insieme una riforma concordata. Al contrario, Letta boccia la bicamerale proposta invece proprio da Giorgia Meloni, la leader sospettata di volersi muovere solo con la propria coalizione. È l'ennesima tra le tante contraddizioni insanabili nelle quali annaspa e rischia di affogare Letta dalla caduta del governo Draghi in poi. Ma è anche un indicatore preciso al millesimo sia della eterna incapacità del Pd di darsi una forma definita, sia delle tentazioni perverse dalle quali avrebbe dovuto imparare a guardarsi.

Il Pd teme non una riforma senza dialogo ma il dialogo sulla riforma, perché lo costringerebbe ad assumere una posizione definita e strategica invece di vivere di tattica a breve. Da questo punto di vista è esemplare l'atteggiamento sulla legge elettorale: non passa giorno senza che Letta bersagli una legge voluta dal Pd di Renzi, che non è stata modificata per l'indisponibilità del Pd di Zingaretti e dello stesso Letta, peggiorata nei suoi esiziali effetti da una riforma costituzionale che il Pd ha votato, dopo averla bocciata per tre volte, perché serviva ad aprire le porte del governo Conte 2. La tentazione conseguente è quella di bocciare ogni idea di riforma, ammantando l'immobilismo e l'incapacità, o l'impossibilità, di assumere una fisionomia con i panni nobili della difesa della “Costituzione più bella del mondo”. Ma dietro gli altisonanti discorsi ci sarebbe la scelta di affermarsi come partito della conservazione come unico elemento identitario. Sarebbe l'ennesima scelta sciagurata.