Quanto va presa sul serio la svolta a sinistra del Pd? Quante probabilità ci sono che la tinteggiatura in rosso non sbiadisca un attimo dopo la chiusura delle urne? E ove si trattasse di una decisione solida, il partito seguirebbe Letta su questa strada? Sono domande fondamentali per la connotazione dell'intero quadro politico italiano, non solo e non tanto per l'esito delle imminenti elezioni.

Dalla sua nascita ormai quasi 15 anni fa il Pd ha pervicacemente rifiutato di adottare un'identità politica precisa. Ha sempre difeso una fisionomia sfuggente e cangiante, indeterminata e dunque esposta a continue correzioni di rotta a seconda delle circostanze. Trattandosi del solo partito italiano che nelle oscillazioni vertiginose di questi anni ha sempre mantenuto una postazione centrale, questa indeterminatezza ha contribuito forse più di molti altri elementi, pur presenti, alla deriva del sistema politico italiano. La decisione di imboccare una strada identitaria con decisione sarebbe dunque comunque un elemento di chiarezza e stabilizzazione, anzi di ricostruzione, di un sistema franato.

Le risposte certe le daranno solo i prossimi mesi ma è già possibile individuare gli elementi forti della svolta di Letta, coronata dalla scelta di ammainare la bandiera del Jobs Act. Quella dichiarazione del segretario, sia chiaro, ha senso almeno per ora solo dal punto di vista politico. Di concreto e dettagliato non c'è niente e presumibilmente non ci sarà perché l'ipotesi di una vittoria netta del Pd il 25 settembre è remora, per usare un eufemismo. Se anche la coalizione di destra dovesse sfasciarsi, come il Nazareno comprensibilmente auspica, l'esito sarebbe un nuovo governo di unità o semi- unità nazionale e il Pd sarebbe comunque dispensato dall'obbligo di dettagliare a rendere operativa una alternativa al Jobs Act.

Ma qui si parla solo di simboli e bandiere e in quel senso vanno lette le dichiarazioni di Letta. Una svolta non solo rispetto alla legge di Renzi ma alla suggestione di fondo che, più delle altre anche se quasi mai in modo netto ed esplicito, ispira i Ds prima e poi il Pd: quella che si riassume nella figura di Tony Blair e che ora al Nazareno immaginano si sostituire con il vate spagnolo Sanchez. Perché Balir e il Jobs Act vogliono dire "precariato" mentre Sanchez implica una crociata in senso opposto, per il pieno impiego a tempo indeterminato. Una sterzata di questo tipo, per essere credibile, richiederebbe un impegno prolungato, almeno di medio periodo.

Il 21 luglio, subito dopo la caduta del governo Draghi, Letta sventolava invece la famosa "agenda Draghi", che era a propria volta solo una bandiera e un segnale simbolico ma di taglio ben diverso dalla ricostituzione di una forza politica orientata decisamente a sinistra. Nel corso delle trattative poi fallite con Calenda, lo stesso Letta aveva sottoscritto un accordo in cui l'alleanza con il ' blairiano' leader di Azione veniva qualificata come «di governo», cioè di contenuti e programma, mentre quella con il "sinistro" Fratoianni veniva derubricata a mera «alleanza elettorale», insomma un patto tra diversi dettato solo dall'utilitarismo del momento.

Le cose sono cambiate dopo la rottura con Calenda ma appunto questo rende inevitabile il dubbio che il Pd si stia abbandonando come quasi sempre al primato assoluto della tattica e che guardi solo alla convenienza a breve. Del resto sono gli stessi strateghi del Nazareno a spiegare che la sterzata a sinistra dovrebbe nelle intenzioni raggiungere due obiettivi elettorali: picchiare "a destra", su un Terzo Polo dipinto come indietro di un ventennio rispetto alle realtà di oggi perché ancora blairiano, ma anche "a sinistra", per fronteggiare l'offensiva di Conte rivendicando la primogenitura e il primato nelle politiche sociali.

L'interesse a breve è certo ma non preclude la possibilità di una visione più strategica. Per quanto nata sull'onda di una esigenza immediata e contingente la svolta potrebbe sopravvivere alla chiusura delle urne proprio perché per il Pd, prima o poi, dovrà decidersi ad affrontare la sfida di una identità politica. Le resistenze interne sarebbero però fortissime in realtà lo sono già anche se, in nome dell'interesse comune elettorale, vengono pronunciate solo in privato. Ma una parte sostanziosa del Pd di ritorno a sinistra, anzi a quella che il governatore dell'Emilia-Romagna ha sprezzantemente definito qualche settimana fa «la sinistra da salotto», non ne vuole sentir parlare.

Alla fine decideranno prima di tutti gli elettori. Se, pur sconfitto pesantemente in ermini di seggi, Letta potrà vantare un risultato brillante per il partito e per la lista, resterà in sella e starà a lui decidere se rendere strategico quello che per ora è essenzialmente un posizionamento elettorale. In caso contrario in testa al conto pesante che gli verrà presentato a stretto giro lo sbilanciamento a sinistra figurerà ai primi posti.