«È vero, può scriverlo: io strumentalizzo mio fratello. L’ho fatto per 13 anni e continuerò a farlo, perché Stefano è diventato un simbolo e tramite lui riusciamo a dare voce a tutti gli altri ultimi. Altrimenti non saremmo arrivati fin qui». Ilaria Cucchi, sorella del giovane geometra romano arrestato per droga nell'ottobre 2009 e pestato con così tanta violenza da morire nel giro di una settimana, non ha paura delle accuse, non ha paura più nemmeno degli insulti, tanti, violenti, il più delle volte sessisti. «Un medico è addirittura arrivato a dire che mia madre ha partorito la gallina dalle uova d’oro, evocando la favola di Esopo. Sono parole che fanno male. Ma abbiamo le spalle larghe», racconta al Dubbio, mentre spiega la sua scelta di candidarsi al Senato per l’Alleanza Sinistra Italiana-Verdi. Una battaglia per i diritti, tema sparito dalla campagna elettorale, e «che faremo tra la gente che ha combattuto con noi per Stefano». Una battaglia contro «gli spot elettorali sulla giustizia» e per raccontare la «discarica sociale» in cui la politica ha trasformato il carcere.

Cosa ne pensa del dibattito sulla giustizia in questa campagna elettorale?

Che se ne parli poco. E mi chiedo se chi lo fa abbia mai dovuto affrontare un processo lungo 13 anni, così come ho dovuto fare io, che la giustizia l’ho vissuta sulla mia pelle. Lo scenario è abbastanza avvilente: assisto a questi talk show che sono diventati dei teatrini, in cui si parla di tutto e del contrario di tutto, ma non della cosa fondamentale, diritti e giustizia. A parlare è prevalentemente Giorgia Meloni, ma che soluzione ha trovato? Sono solo chiacchiere e slogan irrealizzabili. È chiaro che si tratta di spot, perché l’Italia non può rinunciare all’Europa. Le proposte in materia di giustizia e carcere vanno contro la Carta europea dei diritti fondamentali. Vuol dire o farci sanzionare o farci buttare fuori dall’Europa. Non si può rimanere quando c’è da prendere i soldi ed essere “fuori” quando si tratta di diritti.

Lei ha invitato i candidati a passare una settimana in cella per capire come funzionino le carceri, un tema che non è stato affrontato in alcun modo, nonostante i dati raccontino di un’emergenza senza fine, tra suicidi e violenze. 

È un problema enorme, che non possiamo continuare ad ignorare, ma nessuno ne parla. Anzi, la proposta in campo è di rendere le carceri ancor più dei ghetti, lontane dalla società. Si pensa di risolvere il problema rimandando gli immigrati a casa loro, ma questa non è una soluzione, è populismo. Siamo in un momento in cui piace far leva sulla paura della gente, ci piace parlare di sicurezza, ma si tratta di soluzioni pseudo securitarie. Quando si parla di depenalizzazione dei reati minori si parla alla pancia della gente, senza evidenziare che le sanzioni amministrative consentirebbero tempi più brevi e salverebbero la giustizia da quella burocrazia interminabile che toglie spazio a ciò che conta.

Come racconterà le carceri ai suoi elettori?

Come luoghi che, per come sono concepiti oggi, non possono far altro che creare ulteriori reati. Il problema non riguarda solo i detenuti, che vivono in condizioni disumane, ma anche tutti coloro che lavorano quotidianamente in una realtà che è brutale. Sono una vera e propria discarica sociale, dove le persone vengono semplicemente gettate via. Si parla di sovraffollamento, ma non si dice che la stragrande maggioranza dei detenuti ha commesso reati bagatellari e potrebbe stare a casa, mentre chi ha potere, molto spesso, sta tranquillamente a casa propria.

Com’è cambiata la sua idea di giustizia dopo il caso di suo fratello?

Appartenevo allo stereotipo di cittadino medio, benpensante, di famiglia medio-borghese, cattolica. Per questo comprendo benissimo il meccanismo che scatta nella gente di fronte a questi slogan: c’è bisogno di sentirsi rassicurati e si ascolta chi lo fa. La vita, poi, mi ha voluto dare questa lezione e da allora sono cambiata e ho capito qual è la realtà della giustizia.

E qual è?

Non è vero che è uguale per tutti, ma solo per chi se la può permettere. La giustizia spesso obbliga un cittadino comune, quale ero io, di farsi carico di un peso che non gli appartiene, ovvero sostituire lo Stato nelle aule di giustizia e anche fuori. In più ci si scontra anche con l’indifferenza e l’ipocrisia, che scarica sulle vittime anche la responsabilità della propria morte, come accaduto con mio fratello. Meloni, con tutto il rispetto, parla dall’alto della sua posizione, ma sicuramente, e sono contenta per lei, un processo non l’ha mai affrontato. Io posso dire benissimo quali sono i problemi dei processi, dopo 160 udienze e 16 gradi di giudizio, dei quali avrei volentieri fatto a meno. E questo mi porta a dire che il primo problema è il controllo effettivo delle indagine.

Che giustizia immagina?

Una giustizia che vada nella direzione dei diritti. Bisogna dare l’opportunità alla persona offesa, così come all'indagato, di avere un ruolo attivo, di poter vigilare sulle indagini. Vogliamo dare la possibilità ai gip di controllare meglio lo sviluppo delle indagini e l'operato degli accusatori, evitando quelle patologie che causano la lunghezza dei procedimenti. Indagini più controllate, garantite e funzionali sono la premessa necessaria di ogni possibile riforma seria della giustizia. Vogliamo maggiore autonomia per i sostituti procuratori nei confronti dei capi degli Uffici, perché, troppo spesso, gli scandali recenti ne hanno messo in evidenza la nomina come condizionata da poteri esterni alla vera funzione giudiziaria e contigui alla politica. E soprattutto vogliamo fare in modo che l’istituto del gratuito patrocinio sia molto più efficace nel garantire il diritto di difesa per coloro che non hanno disponibilità economiche, per gli ultimi. I temi centrali, in questa campagna elettorale, sono però altri, soprattutto di tipo economico.

Lei cosa propone?

I problemi nascono dalla negazione dei diritti, che devono essere garantiti e uguali per tutti. Lo Stato deve garantire a tutti, per esempio, la possibilità di sopravvivere, un lavoro o, se non può farlo, un reddito di cittadinanza. La sanità, poi, è di fatto privatizzata, così come la giustizia. La famiglia Cucchi si è potuta permettere 13 anni di processi perché aveva una casa da ipotecare, diversamente Stefano Cucchi sarebbe morto di suo, così come era stato deciso nelle indagini iniziali. Questi sono i veri problemi. Io sono un cittadino normale che si trova catapultata in questo mondo, dopo aver fatto politica sul campo tra la gente per anni. Non servono più le chiacchiere, non si possono usare le paure delle persone. Io ho paura di poter essere un giorno in mano a questa gente. Questa non è politica, ma cabaret. Ed è per questo che ci batteremo per portare la nostra voce.