In materia disciplinare la condotta dell’avvocato anche se non notoria e non riguardante l’esercizio della professione assume valenza deontologica. La responsabilità disciplinare degli avvocati abbraccia tutte le azioni che ledono i doveri di probità, dignità e decoro, pregiudicando l’immagine della classe forense e la sua credibilità. La violazione deontologica, peraltro, sussiste anche a prescindere dalla notorietà dei fatti, poiché in ogni caso l’immagine dell’avvocato risulta compromessa agli occhi dei creditori e degli operatori del diritto. Questo è quanto ha stabilito il Consiglio nazionale forense con la sentenza n. 56 del 13 maggio 2022.

Nel caso esaminato, un avvocato viene accusato di truffa a danno di una società: si apre un procedimento penale che si conclude con un patteggiamento cui fa seguito il procedimento disciplinare, che porta all’irrogazione della sospensione dall’esercizio dell’attività per un periodo di un anno e sei mesi. Nel caso specifico, l’avvocato viene condannato per il delitto di truffa aggravata e subisce un procedimento disciplinare per avere distratto beni e somme di denaro ad una società alla quale era legato da un contratto come collaboratore a progetto. Il procedimento disciplinare fa seguito all’esposto della società in questione, che aveva presentato contro l’avvocato due denunce da cui erano derivati due diversi procedimenti penali.

In uno di essi, l’avvocato era stato condannato a un anno di reclusione e 400 euro di multa con sospensione condizionale della pena, mentre nell’altro era stato assolto dall’imputazione perché il fatto non sussiste. L’avvocato soggetto a sospensione impugna la decisione del Consiglio distrettuale di Disciplina sostenendo, tra le varie censure, come la sua condotta non rientri nell’esercizio della professione e, quindi, non possa essere sanzionata, visto che il suo rapporto con la società esponente non era di tipo procuratorio, ma si trattava di una collaborazione a progetto. Il Consiglio distrettuale di Disciplina, all’esito dell’attività istruttoria e della documentazione acquisita, accerta la responsabilità disciplinare dell’avvocato e commina la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per un anno.

Dunque, con la decisione del 13 maggio 2022, n. 56, il Consiglio nazionale forense torna su un argomento già oggetto di discussione, ribadendo un concetto su cui si era già espresso in passato, ossia che la vita privata del professionista può avere potenzialmente rilevanza deontologica. Infatti, l’avvocato incorre in responsabilità disciplinare non solo per le condotte inerenti alla propria professione ma, appunto, per tutte le azioni che ledono i doveri di probità, dignità e decoro nella vita sociale, recando pregiudizio all’immagine della classe forense e alla sua credibilità.

Nel caso specifico è corretto che un avvocato intrattenga rapporti con soggetti che esulino dalla sfera strettamente professionale, ma non può ignorare che le persone potrebbero fare affidamento su di lui per il fatto che “incarna la professione legale”.

Letto in controluce, il principio sembra anche corroborare l’aspirazione al riconoscimento costituzionale del ruolo dell’avvocato. Il quale di fatto esercita una professione di rilievo costituzionale, e per questo l’articolo 9 comma 2 del Codice deontologico forense, nella sua ultima versione prevede che «anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense».

I limiti nella vita privata non riguardano solo gli avvocati. Tra le categorie che necessitano di regole deontologiche chiare e mirate, ha sicuramente un’importanza strategica, per il rilievo e l’impatto che ha sull’opinione pubblica e sulla vita della collettività, quella dei magistrati. Dunque una deontologia comune tra avvocati e magistrati, una responsabilità che esonda la cornice strettamente tecnico- professionale proprio per la rilevanza del ruolo rivestito da entrambi i protagonisti del processo. È nota la raccomandazione della Cassazione ai magistrati di limitare l’uso dei social e di evitare l’adesione a gruppi o pagine connotati politicamente. A riguardo non esiste una vera e propria disciplina giuridica ma rientra nelle casistiche contemplate dalle norme deontologiche anche se non espressamente previste.

La vera novità della suddetta raccomandazione riguarda l’inclusione del concetto di vita privata: “Si raccomanda la riservatezza”, e si sottolinea il rischio di ledere la credibilità complessiva della magistratura anche con partecipazioni a gruppi o follow che abbiano rilevanza politica. Dunque i limiti alle toghe (sia magistrati che avvocati) non riguardano solo la sfera professionale ma anche i comportamenti che si assumono nella vita privata potendo ledere l’immagine dell’Ordine che rappresentano.