Silvana Arbia è una delle magistrate italiane più apprezzate all’estero. Ha ricoperto, tra le varie cose, l’incarico di Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, ottenendo le condanne dei responsabili del genocidio del 1994 (quasi un milione di morti in poco più di tre mesi di violenze). A vent’anni dall’entrata in vigore dello Statuto di Roma, che ha istituito la Corte penale internazionale, è ancora vivo il ricordo dei giorni che portarono gli Stati aderenti a dotarsi di un trattato fondamentale per assicurare alla giustizia internazionale gli autori di crimini ben precisi.

Eccellenza, quanto è cambiata la giustizia penale internazionale negli ultimi anni?

Parlare di cambiamento è ancora presto, poiché la giurisdizione internazionale in materia penale ha cominciato a strutturarsi e diventare sistema con la creazione della Corte penale internazionale attraverso l’adozione dello Statuto di Roma, entrato in vigore venti anni fa, il primo luglio 2002. E, nonostante la rilevanza per quantità e qualità degli interventi della Cpi in diverse situazioni, i primi vent’anni sono serviti a testare e consolidare un meccanismo di giustizia indipendente, permanente e basato su un trattato internazionale, inteso a porre fine all’impunità dei più gravi crimini di rilevanza internazionale, quali il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione. Parlerei, dunque, di sviluppo più che di cambiamento.

La Cpi è stata sottoposta a una sorta di “tagliando” dopo la sua creazione?

Sviluppi importanti si sono registrati già nei primi dieci anni di funzionamento della Corte: l’esercizio di tutti i trigger mechanisms (self- referral, referral di Stati e referral da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) ha consentito l’avvio delle indagini con susseguenti processi che hanno visto la partecipazione delle vittime con soddisfazione del loro diritto a riparazione.

Nel 2010 si è adottata la prima revisione dello Statuto con la definizione del crimine di aggressione e alcune integrazioni della lista dei crimini contro l’umanità. In quell’occasione gli Stati parte hanno formalmente dichiarato che la giustizia garantita dalla Cpi è pietra miliare di progetti di pace, hanno consolidato l’impegno di rafforzare il sistema di protezione e riparazione in favore delle vittime, e di rendere più efficiente la cooperazione internazionale. Un’ulteriore tappa nell’evoluzione della giustizia penale internazionale sarà segnata dall’attuazione, da parte degli Stati, del loro obbligo di dotarsi di strumenti necessari per perseguire e punire, a livello nazionale, i crimini di competenza della Cpi, essendo questa complementare alle giurisdizioni nazionali. La Corte penale internazionale interviene nei casi in cui le giurisdizioni nazionali non possono o non vogliono effettivamente perseguire e punire i crimini in questione.

Ha un ricordo particolare del periodo legato alla redazione e all’adozione dello Statuto di Roma?

Tanti ricordi e tante soddisfazioni. Le caldissime notti passate negli uffici della Fao, che ha ospitato la Conferenza diplomatica per la creazione di una Corte penale internazionale, la marea travolgente delle Ong che hanno svolto un importante lavoro di sensibilizzazione, le lunghe discussioni tra giuristi e diplomatici del mondo intero, le estenuanti opposizioni di paesi molto ostili, come Israele e Siria, e la vittoria sulla questione relativa alla partecipazione delle vittime nei processi. Un ricordo personale per me riguarda il ricevimento in albergo proprio in quei giorni, di un fax proveniente da New York che mi annunciava la selezione per il posto di procuratore internazionale presso il Tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite per il Ruanda.

Il termine per accettare era breve, avrei dovuto assicurarmi l’autorizzazione del Csm e terminare gli impegni alla Corte d’Appello di Milano, dove operavo all’epoca. Una sovrabbondanza di soddisfazione perché era una conquista tutta mia, che mi ripagava degli sforzi di anni di studio e di tempo libero investito per corsi di specializzazione in materia di diritto internazionale e diritto penale internazionale. Ricordo che il professor Bassiouni, uno dei coordinatori del lavoro del Comitato di redazione dello Statuto di Roma, si congratulò molto calorosamente. La scelta era difficile, ma necessaria. Ho accettato e ho speso quasi nove anni presso il TPIR, che, con il TPIY (Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia), ha gettato le fondamenta della giustizia penale internazionale.

La guerra in Ucraina ha riacceso l’attenzione sugli strumenti della giustizia internazionale. Sarà possibile perseguire gli autori dei crimini che si stanno consumando?

Sicuramente. I mezzi disponibili per effettuare indagini e la tempestività delle stesse, in un contesto di mobilitazione massima della comunità internazionale, delle istituzioni dell’Ue e della società civile costituiscono condizioni molto favorevoli a risultati positivi. La qualità delle prove e la loro conservazione sono sempre comunque aspetti critici.

Nelle prime settimane di guerra in Ucraina in tanti hanno discusso su una eventuale incriminazione di Putin. È pura utopia?

No, l’Ucraina ha accettato la giurisdizione della Cpi, un gran numero di Stati hanno denunciato la situazione Ucraina alla Corte, consentendo al Procuratore di avviare senza ritardo le indagini. È una fase in cui le informazioni non sono accessibili al pubblico. Ove necessario, persino una richiesta di mandato di arresto può essere segretata (under seal). Chiunque ha commesso crimini di competenza della Cpi in Ucraina dal 2014 in poi è suscettibile di essere imputato e processato.

Il ministero della Giustizia ha istituito la Commissione per un Codice dei crimini internazionali, che da poco ha concluso i suoi lavori. Una personalità come lei non è stata coinvolta. È rammaricata per questo?

Moltissimo, perché io non ho scritto saggi sul genocidio e altri crimini internazionali, rimanendo comodamente a casa, ma ho costruito casi di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, svolgendo funzioni giurisdizionali sul campo, e presentandoli al processo, ottenendo condanne che hanno segnato tappe storiche nella giustizia penale internazionale. Tuttavia, non sono sorpresa da queste pratiche perché le ho subite molte volte e le ho riciclate per accrescere la mia autostima e la mia volontà di servire la verità e la giustizia. Servire non declamare.