Un po’ come accadde dopo la morte di Sergio Marchionne, anche con la scomparsa di Leonardo Del Vecchio c’è il rischio di mitizzare i più superficiali aspetti di un operato manageriale e imprenditoriale durato una vita, dimenticando gli esempi esterni rivolti alle moltitudini di persone a cui tali figure hanno trovato lavoro, uno scopo, ai contesti sociali che attorno ad essi si sono creati, molto spesso disagiati tanto quanto il meridione d’Italia (Agordo nel 1960 non era certo Milano). Di Marchionne, ad esempio, i più ricordano aforismi più o meno a lui attribuibili, qualche battuta contro le ferie d’agosto, e tentano di imitarne i modi prendendo spunto dalla visione estremistica di condurre l’azienda verso risultati eccezionali e dalla straordinaria capacità di estrarre valore che viene narrata come cifra della sua vita manageriale, ignorando aspetti decisamente più profondi che costituivano il tratto distintivo dell’uomo-manager, come l’etica per il lavoro, che infondeva in tutti attraverso gli strumenti dell’organizzazione aziendale. Ammesso e non concesso che questo sia un modello da imitare in un tempo che cerca nuovi equilibri tra vita e lavoro, con Del Vecchio il rischio è ancor maggiore, data la ben più alta dimensione dell’uomo-imprenditore e la forza ammaliante della sconfinata ricchezza costruita da un self made man all’italiana, di cui, l’indomani dalla morte, piace narrare l’aura di eminenza grigia nei principali salotti del potere finanziario, e a distanza di una settimana le vicissitudini ereditarie e le fidanzate dei giovani rampolli che ne hanno raccolto il testimone, quantomeno azionario. Ma quale errore farsi carico di trasferire un’immagine così impoverita delle azioni dell’uomo, sottraendo valore alla componente principale del suo impegno, cioè quello rivolto ai lavoratori, rispetto ai quali Del Vecchio, marcando la differenza, ha sperimentato prima di qualunque altro la strada del welfare finalizzato a distribuire benessere, ricchezza, legare e creare coscienza di gruppo, animare la discussione sindacale portando le parti sociali a confrontarsi sul campo da gioco dell’impresa e del lavoro che in essa si svolge, chiudendo la porta alle questioni politiche. E quale errore ancor più grande sostenere una simile narrazione dimenticando il contesto nel quale viviamo, in cui l’inflazione morde i salari senza che si riescano a trovare soluzioni immediate che possano sostenere il potere di acquisto, evitando nel contempo l’impennata del costo del lavoro, tenuto conto del dimensionamento del cuneo fiscale e contributivo (il più alto d’Europa, pari al 63%), che verrebbe quasi sicuramente scaricato sui prezzi, così innescando la recessione con la frenata dei consumi, e così via. In questo scenario, a ben guardare, il welfare, con i suoi indubbi vantaggi fiscali e contributivi (a certe condizioni è un “netto per netto”), può diventare una vera e propria ancora di salvezza, lo stesso welfare che Del Vecchio, prima e più di tutti, ha sdoganato come strumento di coinvolgimento ed aggregazione del personale. Ed infatti nel 2009, nel pieno della crisi finanziaria, l’imprenditore degli occhiali (e di tante altre cose) volle introdurre, insieme al sindacato, un paniere di beni di consumo aumentato nel tempo con allargamento agli strumenti di cura della persona, così che anche i lavoratori non rientranti nelle qualifiche di dirigenti e quadri hanno potuto fruire di quegli strumenti un tempo appannaggio della sola linea manageriale, quali medicina preventiva, cure mediche e odontoiatriche, assistenza integrativa sanitaria, scuola ed università per i figli. Il percorso è diventato il metro della gestione del personale di un gruppo che ha saputo portare avanti l’idea che eccellenza produttiva, soddisfazione della forza lavoro e spinta commerciale possono viaggiare di pari passo, generando valore e ricchezza per la collettività nella quale l’azienda insiste con la sua presenza, e giammai un costo. Un percorso, quello targato Luxottica, che ha consentito non solo il miglioramento delle condizioni economiche del personale ma ha favorito lo sviluppo di una coscienza professionale in cui si lavora “con” l’impresa e non più soltanto “per” questa, concluso con l’allargamento della partecipazione al capitale mediante il rilascio di 16 milioni di euro si stock prese direttamente dalla partecipazione del fondatore. Questo dovrebbe essere il centro della narrazione attorno alla figura di Del Vecchio, da cui prendere spunto per rinvenire quegli strumenti da offrire alle persone dei lavoratori ed alle loro famiglie allo scopo di combattere l’impennata dei prezzi con salari fermi da vent’anni, in un sistema, quello italiano, che non impara mai dalla storia a prevenire i problemi ma si lancia nell’affrontarli solo quando si presentano alla porta oramai enormi ed inesorabili. Un esempio, quello offerto dall’imprenditore visionario e stacanovista di Agordo, che dovrebbe ispirare un percorso di emulazione che ha un senso nella misura in cui è in grado di coinvolgere il sindacato e le persone entro nuovi dialoghi condivisi, e lasciare sul territorio parte della ricchezza creata, poiché, crisi inflazionistica a parte, è qui, nel miglioramento quali-quantitativo delle persone dei lavoratori, che si gioca la partita del nostro futuro. *Equity partner LabLaw Studio legale