Eugenio Scalfari ha rovesciato il giornalismo italiano come un calzino. Si possono discutere molte suo posizioni, dissentire dalla scelta di fare del suo allora giovanissimo giornale, La Repubblica, il capofila della linea di fermezza ai tempi del sequestro Moro, nel 1978, dalla lunghissima crociata contro Silvio Berlusconi, un duello prolungatosi per anni e anni, o su mille altri particolari. Ma il suo ruolo nel rivoluzionario il giornalismo italiano, il suo rappresentare uno spartiacque epocale, quello è al di sopra di ogni dibattito.Quando le rivoluzioni sono davvero tali si stenta a riconoscerle, a distanza di tempo, perché quel che allora era inaudito e inedito è diventato nel frattempo la norma. Eppure prima che Eugenio Scalfari e il suo compagno d'avventure di sempre Carlo Caracciolo si mettessero a cercare i capitali necessari per fondare un nuovo quotidiano, a metà anni '70, non esisteva neppure l'idea di un giornale-partito che non dovesse rispondere a nessun padrino e si muovesse in modo autonomo, però come un partito e non solo come un “organo di informazione orientato” o come un foglio di partito propriamente detto. Non era stato questo l'Espresso, il frutto della prima collaborazione tra Scalfari e Caracciolo. Si erano conosciuti nel1952 a Milano, quando il primo era appena stato licenziato dalla Bnl per un articolo al vetriolo contro Federconsorzi e il secondo si faceva strada come editore di pubblicistica industriale. Quando Arrigo Benedetti, direttore dell'allora leggendario Europeo, lasciò il settimanale perché scontento della nuova proprietà Rizzoli, scattò la scintilla. I tre si misero a cercare soldi, li trovarono dall'industriale italiano illuminato per eccellenza Adriano Olivetti, il 2 ottobre 1955 sfornarono una testata nuova sparando subito ad alzo zero con un'inchiesta di Manlio Cancogni che ancora oggi viene ricordata da tutti: “Capitale corrotta, nazione infetta”. Con il suo formato lenzuolo, la raccolta di firme d'assalto, le inchieste da antologia, l'Espresso, diretto da Benedetti con Scalfari direttore amministrativo e giornalista economico e poi dal 1963 direttore a pieno titolo, era già una pietra miliare, aveva già coniugato la vocazione sociale e di denuncia ma anche d'élite e colta di testate come il famoso Mondo di Mario Pannunzio e lo stesso Europeo, con le esigenze dell'editoria di massa, alle quali Scalfari era tutt'altro che sordo. Ma la chiave dell'Espresso erano le inchieste,gli altarini scoperchiati, i segreti turpi svelati.Il colpo più grosso Scalfari e il suo cavallo di razza Lino Jannuzzi lo fecero nel 1967, quando misero in piazza il “piano Solo”, golpe progettato tre anni prima dal generale De Lorenzo, e i fascicoli raccolti dal Sifar, il servizio segreto, già diretto dallo stesso generale. Lo scandalo fu enorme, l'impennata di copie, che con Scalfari direttore avevano già superato nel primo anno quota 100mila, tangibile. Direttore e cronista, condannati per calunnia, rischiarono la galera, invece approdarono in Parlamento grazie alla candidatura-scudo offertagli dal Psi. Ma il progetto Repubblica era un'altra cosa. Molto più ambizioso. Molto più azzardato. Quando la coppia Scalfari-Caracciolo la illustrò a De Benedetti, futuro editore di una a quel punto già affermata Repubblica, si sentirono rispondere che l'idea non aveva uno straccio di possibilità di successo. L'ingegnere regalò una cinquantina di milioni a titolo amicale ma nulla di più. I soldi i due li trovarono lo stesso e il 14 gennaio 1976 il nuovo giornale, col titolo preso di peso della Rivoluzione dei garofani portoghese dell'anno precedente e dal suo giornale guida, era in edicola. La nuova testate era inscritta nella tradizione del giornalismo della sinistra liberale e democratica della quale tuttavia rinnegava e rivoluzionava tutti i canoni formali, fortemente innovativo da tutti i punti di vista, dal formato tabloid alla scelta di rinunciare allo sport, sino all'uso spregiudicato come mai prima dei titoli, che dovevano arpionare il lettore anche a costo di rivelarsi molto lontani dai contenuti degli articoli. Eppure le vendite sembravano dare ragione a De Benedetti. Il giornale di Scalfari era di gran moda e scarse vendite. Piaceva molto ai giovani di sinistra e impegnati, ai quali riservava massima attenzione. Destava massimo interesse con la cultura spostata dalla classica terza pagina al paginone centrale. Ma non bucava la massa, sopravviveva a stento, grazie ai prestiti del Banco di Napoli e alla corazzata Espresso alle spalle. Tutto cambiò con il sequestro Moro. Non solo Repubblica decollò solo in quei 55 giorni ma mise a punto la sua specificità in quella tragedia. Diventò un partito, nel senso che si ripropose per la prima volta apertamente di orientare l'opinione pubblica per proprio conto, concentrando tutte le forse sulla crociata in corso: la difesa strenua della linea della fermezza.Era nato un modello di giornalismo nuovo, che entrava in campo in prima persona, sosteneva leader politici, cercava di costruirne l'immagine e orientarne le scelte, ne contrastava altri con campagne durissime, come quella contro Craxi prima e contro Berlusconi poi. Oggi è la norma e lo è anzi anche troppo. Per l'epoca era una novità assoluta. Nel merito Scalfari colse qualche obiettivo e ne mancò molti altri. Ma per quanto riguarda lo strumento non ci sono ombre: il successo fu trionfale. Eugenio Scalfari non aveva modificato il giornalismo in Italia. Aveva creato il moderno giornalismo italiano.