È un fenomeno chiamato “porte girevoli” ( azzeccare l’immagine giusta è fondamentale, in una comunicazione sempre più rapida). In sintesi: si ha quando un giudice smette di fare il giudice, fa dell’altro, ma poi ritorna a fare il giudice.

È un tema delicato in generale: c’è un concorso – molto selettivo - per assumere i giudici, quindi ci si aspetta che chi lo vince faccia ciò per cui è assunto, e non dell’altro.

Già i giudici sono pochi: sottrarne alcuni alle loro funzioni è un peccato. Ma è anche un problema se si creano situazioni di imbarazzo quando tornano a fare i giudici.

Tema ancor più delicato per la giustizia amministrativa, perché è frequente che ai suoi magistrati – in specie, ai consiglieri di Stato – siano attribuiti incarichi cruciali ( capi gabinetto, capi dipartimento, ecc.).

Alcune norme della riforma “Cartabia”- la legge 71/ 2022 – pongono ora dei limiti alle “porte girevoli”. La disciplina è complessa e assai tecnica. Leggerla non basta, è da capire in concreto come inciderà su un mondo che, dall’esterno, non è facile conoscere nei suoi meccanismi. Certo, sembrano rilevanti regole come l’esclusione per tre anni dagli incarichi direttivi e semi- direttivi di chi abbia svolto incarichi extragiudiziari apicali. E chiari sono i principi imposti alla delega legislativa: tra essi, l’obbligo di valutare puntualmente le ricadute degli incarichi sull’indipendenza del giudice.

Non so se sia una disciplina adeguata ai suoi fini, ma la direzione è quella giusta.

Un sistema complessivo. Possono sembrare questioni settoriali. Però, a partire da esse, il discorso si allarga a coinvolgere ciò che facciamo, ciò che siamo, i valori di fondo della nostra società. Avvocati e giudici partecipano a una stessa funzione di giustizia. Sono elementi complementari e necessari di un sistema chiamato a dare risposta a una domanda di giustizia che non può restare inevasa. Un sistema fragile, che per funzionare deve essere credibile. Ed è la credibilità di ciascuno dei suoi elementi che consente la credibilità complessiva del sistema: per chi si trova ad averci a che fare, l’unica cosa che conta.

Se viene pregiudicata l’immagine dei giudici, il danno si ripercuote sull’immagine degli avvocati, e viceversa: siamo pezzi di un’unica immagine. Dunque, è doveroso che gli uni e gli altri difendano non solo il proprio prestigio e la propria capacità di svolgere il proprio compito, ma anche il prestigio e la capacità di chi con loro concorre nella stessa funzione.

Non è un’alleanza. È una responsabilità solidale, di giudici e avvocati, nel garantire una funzione di giustizia. Dunque, è necessaria una reciproca difesa dalle ingerenze del potere ma anche dalle sovrapposizioni con esso che possano avere effetti negativi.

La fiducia nella giustizia. Naturalmente, i ruoli sono diversi: diversi i compiti, diversi gli obblighi.

Il giudice deve essere indipendente: non solo imparziale come persona rispetto alle parti tra cui giudica, ma distinto da esse anche a livello di struttura. E dunque – per tornare alle “porte girevoli” - un giudice non può fare altre cose se queste possano anche solo virtualmente incidere sulla sua attività di giudice. Non può farlo neanche se lo fa per tradizione storica; neanche se lo fa con le migliori intenzioni; neanche se ne trae beneficio per la sua attività di giudice perché migliora la sua conoscenza di ciò su cui giudica.

Non può farlo perché è messo in gioco un valore più alto: quello della fiducia nella giustizia.

Il dovere di rappresentare. Come avvocati possiamo spesso vedere ciò che - dall’interno non si coglie, ed è nostro dovere rappresentarlo. Con rispetto e con franchezza. Così nel caso delle “porte girevoli”.

E dunque: capita, dopo aver perso in Consiglio di Stato, che l’avvocato – magari sorpreso da una decisione che non si aspettava - vada a vedere se il presidente o il relatore o gli altri componenti del collegio, nel loro curriculum, abbiano svolto incarichi in qualche modo riconducibili alle amministrazioni cui hanno dato ragione. E, da qui, può sorgere la tentazione di fare la stessa verifica anche prima che la causa sia decisa. E c’è anche un ulteriore passaggio: capita che i clienti più informati e avveduti vadano a vedere chi sono i componenti dei collegi che decidono le loro cause e quali altri incarichi abbiano avuto. Tutte informazioni che, nell’era di internet, si accumulano in rete. Non va bene. Del mio giudice può interessarmi se sia bravo e stimato come giudice, non cosa abbia fatto fuori dalla sua attività di giudice.

I dubbi che uno può farsi venire possono essere i più infondati. Ma il punto è che già solo la tentazione di verificare vuol dire che non c’è più quella piena fiducia che si deve invece avere nel proprio giudice.

E se viene meno la fiducia nei propri giudici, il danno è già interamente compiuto ed è gravissimo per l’intero sistema - anche per gli avvocati che ne fanno parte - e per la collettività, al cui servizio quel sistema è posto.

Il dovere di indipendenza dell’avvocato. Sia chiaro: anche i giudici hanno ragione di temere il pregiudizio al sistema che può derivare dall’avvocatura.

Per dire: anche l’avvocato ha un dovere di indipendenza. Certo, è cosa diversa dall’indipendenza del giudice: serve per garantire il diritto di difesa, per essere pienamente al servizio del proprio cliente. Ma la materia di cui è fatta l’indipendenza è la stessa.

C’è già tutto nel codice deontologico forense: “L’avvocato nell’esercizio dell’attività professionale deve conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà da pressioni o condizionamenti di ogni genere, anche correlati a interessi riguardanti la propria sfera personale.”

Un dovere di indipendenza che – nei rispettivi ruoli - condividiamo con i giudici, e che, nel settore della giustizia amministrativa, presenta una analoga intensità. La vicinanza del nostro mondo alle innumerevoli e coinvolgenti forme del potere pubblico riguarda anche gli avvocati.