Gentile Redazione, torno a ringraziarvi a distanza di mesi dall’ultima volta che vi ho scritto, perché in queste settimane stanno accadendo alcune cose nell’Alta Sicurezza nell’indifferenza generale e ho pensato di raccontarle. Spero che chi si fermerà a leggere, penserà al male che egli stesso sta compiendo senza saperne nulla e, forse, senza volerlo. Non credo che le persone possano immaginare cosa si vive quando le voci degli affetti vengono spente in questo modo, ma spero almeno di essere riuscita a tratteggiare il contorno di un’idea.

Da quattro settimane le case di reclusione hanno inaugurato un periodo di transizione verso la “normalità”, fatto che era preannunciato, temuto o minacciato da mesi. I colloqui visivi continuano in ipotesi a essere affiancati da quelli virtuali, secondo una scelta del detenuto, fino al concorrere delle ore complessive a lui spettanti e con peso specifico diverso in base alla modalità, ma le telefonate vocali sono entrate in un regime di progressiva riduzione. In questa prospettiva di spegnimento, dal prossimo settembre le chiamate torneranno a essere tre o quattro al mese a seconda del girone infernale in cui si trova il reo, mentre durante l’emergenza di ben due anni, ogni detenuto e la sua famiglia ne hanno avute tre a settimana.

Qui è necessario chiarire, perché bisogna sapere ciò di cui si legge. Un individuo recluso in regime di alta sicurezza non può chiamare chi vuole ma solo due o tre numeri autorizzati e queste telefonate non sono come le immaginate. “Telefonata” in questo contesto indica una chiamata irripetibile, destinata a cadere nel nulla se il telefono è occupato o guasto o se il parente del caso sta lavorando. Se l’opportunità è raccolta, durerà 9.59 minuti e poi la linea cadrà. Per la precisione durerà 9.59 minuti meno 5 secondi perché dopo nove minuti un carosello suonerà un requiem che aprendosi come un ventaglio coprirà lo spazio per parlare, avvisando che bisogna salutarsi. Infine c’è da precisare per non allarmare i lettori, che le telefonate sono ascoltate e registrate sempre e se chi ascolta lo reputa necessario, interrompe immediatamente la comunicazione con le conseguenze che si possono immaginare. La comunità è sempre tutelata, perché non c’è messaggio o comunicazione illecita che possa passare. Eppure, entro la fine dell’estate, il soggetto ristretto, e con lui la sua famiglia, ritornerà da dodici telefonate mensili a tre. Aggiungendo due o tre colloqui ( uno visivo e due digitali), vi sto raccontando che per quegli esseri umani negli altri 24 o 25 giorni al mese la vita resterà muta d’affetti. Ma era così anche prima, ci sono abituati - mi risponderete. È vero, è tutto a posto, loro sono abituati ad accettare in silenzio e noi a fare del male, gratuito.

Nel bel dialogo che s’intitola “Inventarsi una vita”, Claudio Magris racconta a Paolo Di Paolo che in una lingua dell’Amazzonia il futuro è espresso con le stesse forme verbali con cui si esprime il camminare all’indietro, «sia perché non vedi, sia perché tornando indietro ti si allarga l’orizzonte». Le carceri italiane si sono così proiettate nel futuro da essere tornate indietro, riempiendo il tempo di buio, di vuoti, assenze e carenze ben note al regime di alta sicurezza. Questo salto è giunto con ampio margine di previsione, con avvisi ripetuti come fossero minacce e oggi che il futuro è tra noi, ritroviamo il sapore insipido del passato, mentre qualcuno intona il “si sapeva”, cantilena che non conforta affatto. Siamo tornati al silenzio e non si può non convenire con gli indigeni che la prospettiva si sia fatta più ampia, perché abbiamo camminato tanto e vediamo molto di più, ma soprattutto non siamo più gli stessi e oggi sappiamo di una possibilità diversa, fatta della voce degli affetti e del sapersi l’un l’altro con un ritmo più umano. Prima eravamo nel futuro vero e non lo sapevamo e questa consapevolezza rende la sete più insopportabile. Si può solo sperare che chi ha il potere di farlo, voglia avvalersi di questa migliore visuale e spalanchi la mente alle nuove possibilità che lo stato di emergenza ci aveva indicato.

Ricordo una frase della Allende, nel suo famoso romanzo “Paula”: «Silenzio prima di nascere, silenzio dopo la morte, la vita è puro rumore tra due insondabili silenzi». Le carceri tornano al silenzio degli affetti, così si possono ascoltare meglio i rumori dei blindati, delle chiavi, dei cancelli, le grida. Le carceri tornano al silenzio degli affetti, perché i detenuti sono fuori dalla vita di cui scrive la Allende e li trattiamo come se fossero vivi per sbaglio. È proprio tutto in ordine, l’inferno è un posto muto e sordo e ci stiamo dentro tutti. Ai reclusi davvero non resta che «inventarsi una vita» e per questo in molti scrivono e lo fanno benissimo.

 CECILIA GABRIELLI

 Tutore di Giuseppe Grassonelli