Si sa che le sconfitte, al contrario delle vittorie, non rafforzano lo spirito unitario. C'era dunque da aspettarsi che la mazzata dei ballottaggi, tanto più pesante perché imprevista innalzasse le tensioni nel centrodestra, cioè spingesse in direzione diametralmente opposta a quella opportuna, essendo la sconfitta stata provocata prima di ogni altra cosa proprio dalle lacerazioni interne alla coalizione. Tuttavia c'è lo stesso qualcosa di sconcertante nella rancorosa rissa alla quale si sono abbandonati gli sconfitti, con la parziale eccezione di Forza Italia, nel day after. Se un certo livello di litigiosità era infatti prevedibile, la virulenza dei reciproci rancori, neppure celati ma squadernati pubblicamente, implica un tasso di autolesionismo talmente alto da lasciare sbalorditi.

È credibile che una coalizione arrivi a rischiare tanto e sprechi un vantaggio iniziale con tanta spensieratezza solo per la competizione tra due forze politiche e anzi tra due leader? È possibile che la rissosità dei capibastone locali s'imponga con tanta autorità sull'interesse comune senza che nessuno, al vertice, intervenga per frenare il disastro? In parte bisogna rispondere di sì. Una crisi di sistema come quella che vive da anni l'Italia fingendo di non accorgersene mette effettivamente in moto dinamiche del genere, esalta i personalismi e umilia la politica finché quei personalismi non arrivano a soppiantare per intero la politica.

Ma nell'incapacità del centrodestra anche solo di affrontare la propria crisi c'è palesemente qualcosa di più e di più profondo. Le forze centrifughe in azione non sono solo gli interessi personali di qualche leader o di qualche ras locale. Sono anche, forse soprattutto, impostazioni politiche molto diverse, radici che affondano in terreni non solo distinti ma per molti versi antagonisti e inconciliabili. Il miracolo di Berlusconi era stato tenere insieme queste culture politiche diverse in virtù del suo ruolo e dei suoi mezzi. Aveva soldi e aveva i voti. In una certa misura la sua parola doveva essere se non l'autorità assoluta almeno l'ultima istanza. Il fallimento di Berlusconi è stato non riuscire, nell'arco di venticinque anni, ad amalgamare davvero quelle culture. Ha nascosto e tenuto a freno le spinte centrifughe. Non è mai riuscito a cancellarle e in realtà non ci ha neppure provato.

A una lettura superficiale, ad esempio, FdI e la Lega sembrano partiti gemelli. Uguali la retorica sulla sovranità nazionale, la propaganda allarmistica sull'immigrazione, il tentativo di capitalizzare elettoralmente disagi e insoddisfazioni popolari. Le somiglianze sono reali ma le differenze lo sono altrettanto. La Lega è un partito realmente populista, dunque percorso da venature molto diverse tra loro, a volte di estrema destra altre volte quasi di sinistra. È inoltre un partito che non ha mai dimenticato o smarrito del tutto la funzione di rappresentanza di precise fasce sociali e geografiche. FdI è un partito compiutamente di destra, che è ridicolo accusare di neofascismo ma che con il vecchio Msi mantiene invece un rapporto di continuità forte, ed è un partito d'opinione, del tutto svincolato dalla rappresentanza sociale se non per effimere ragioni di propaganda. Anche senza contare il centralismo dei tricolori e il federalismo costitutivo dei leghisti, che è già una bella distanza, si tratta di culture che hanno in comune solo la superficie e confliggono nelle radici.

Ma se FdI è effettivamente monolitico, nella stessa Lega convivono due anime diverse e anch'esse conflittuali. Quella pragmatica dei Giorgetti e degli Zaia, che era governista da ben prima che nascesse il governo Draghi essendo la sua ragion d'essere la rappresentanza di alcuni interessi sociali, e quella comiziante e tribunizia di Salvini. Non si tratta di culture necessariamente antitetiche, tanto che hanno proceduto a braccetto sin dai tempi di Bossi e Maroni, ma le circostanze possono renderle conflittuali ed è quello che si sta verificando. Nonostante si tratti di una contrapposizione reale è improbabile che il punto di rottura venga raggiunto prima delle prossime elezioni, semplicemente perché Salvini è ancora indispensabile. La resa dei conti arriverà, se i risultati saranno disastrosi, dopo le elezioni politiche. Solo a quel punto l'area cosiddetta "governista", essenzialmente il partito del Nord, proverà a giocare la carta di Fedriga, l'unico in grado oggi di provare a sostituire Salvini.

Forza Italia è sempre stato un collage di aree e tradizioni politiche diverse, che si sono però rarefatte via via che il partito di massa si prosciugava al punto che oggi è probabilmente il partito nel quale sono più forti le spinte degli interessi personali, la guerriglia per bande interna, con all'interno una componente robusta che guarda a quella vera e propria "ideologia moderna" che è il pragmatismo draghiano. Trasformare questo magma in una coalizione politica sarebbe un'impresa ardua comunque. Senza neppure provarci diventa impossibile.