Uno pensa alle comunità religiose negli Stati Uniti e si immagina subito i cortei di fanatici pro life, le crociate contro i diritti civili, il fondamentalismo veterotestamentario delle chiese evangeliche con i loro accoliti born again Christian, il cuore pulsante della Bible belt che ancora oggi sembra incompatibile con i principi della laicità e della separazione tra Stato e religione, tra leggi terrene e valori trascendenti. E, naturalmente, pensa al lungo sodalizio con la destra politica che da Ronald Reagan a Donald Trump, passando per Bush padre e figlio, ha concesso loro visibilità e una grande influenza sulle questioni di società. Se la Corte suprema ha deciso di abolire la Roe vs Wade calando un mantello proibizionista sulla libertà di abortire è perché ha piena cognizione di questa spinta popolare che forse non rappresenta la maggioranza cittadini statunitensi ma che legittima la brutale guerra ai diritti civili sferrata dai giudici conservatori. Giù sono pronte in tal senso le offensive contro la contraccezione e i matrimoni tra persone dello stesso sesso annunciate in un’intervista dal giudice Clarence Thomas. Ma i cristiani d’oltreoceano non sono certo tutti degli integralisti violenti e dei nemici delle libertà individuali. Questo anche a livello di confraternite. Prendiamo, per esempio, la First Unitarian Church of Dallas che opera nello Stato senza dubbio più conservatore dell’Unione, storica roccaforte del partito repubblicano: il Texas. Da anni i suoi volontari aiutano materialmente le donne che non possono interrompere la gravidanza a causa delle leggi ultrarestrittive, spesso accompagnandole in altri Stati come il New Mexico. Lo fanno da oltre quarant’ anni, e non è un caso che la First Unitarian Church of Dallas sia all’origine della Roe vs Wade, avendo rappresentato nel 1973 i diritti di Jane Roe (il vero nome era Norma Leah McCorvey) nel suo ricorso all’alta Corte che poi diede luogo alla storica sentenza. Da qualche anno erano attivissimo nella rete Clergy Consultation Service on Abortion, fondata a New York nel 1967 dai pastori protestanti metodisti di Washington square e un gruppo di rabbini di cultura liberal. Una strana creatura, figlia della travolgente stagione dei diritti che ha squadernato la società americana anche nella variegata galassia religiosa partorendo sorprendenti sincretismi. Come il Religious Coalition for Reproductive Choice nato all’inizio degli anni 70 : «Cristo è vicino alle persone vulnerabili, in particolare agli emarginati dal sistema e dalle ineguaglianze, Cristo non è un giudice», spiega l’attuale direttrice Katey Zeh, pastora battista. Per gli adepti della First Unitarian Church, che si ispira apertamente all’ “universalismo unitario” e appartiene a una congregazione fondata in Canada, il diritto di scelta della donna prevale sui moniti della Bibbia che considera l’aborto un omicidio, ma anche sui dilemmi etici che ne derivano, in quanto la donna è la prima vittima di un aborto e sarebbe assurdo paragonarla a un’assassina. Inoltre la possibilità di interrompere la gravidanza in sicurezza evita il barbaro mercato nero degli aborti clandestini una piaga che combatte dalla fine degli anni 60. Antiproibizionista e ovviamente contraria alla pena di morte. È soprattutto una chiesa sociale, molto presente sul territorio, che offre assistenza concreta a tutti, che spesso sostituisce il welfare minimalista statunitense, fornendo ricoveri e cibo ai senza tetto, occasioni di lavoro ai disoccupati e, appunto, aiuto legale e sanitario alle donne delle classi popolari, quasi tutte afroamericane o ispaniche, molte di loro vittime di violenza sessuale. Riescono a farlo da decenni grazie a una fitta rete di donatori pro choice di diversa estrazione religiosa, l’unico requisito per ottenere servizi è essere al di sotto della soglia di povertà. «Noi facilitiamo solamente l’accesso a strutture mediche sicure a donne in gravi difficoltà, non incoraggiamo nessuno ad abortire e non facciamo propaganda, si tratta di una scelta individuale che appartiene solo alla donna», spiega il reverendo Daniel Kanter Senior minister della First Unitarian Church in un’intervista alla britannica Bbc. Venerdì notte, poche ore dopo la sentenza della Corte suprema centinaia di fedeli si sono riuniti a Dallas per pregare e per «trovare la forza di continuare la missione anche se nel prossimo futuro molti Stati vieteranno il diritto ad abortire o lo renderanno impossibile», racconta Kanter. Ma l’attivismo della First Unitarian Church e la rete di cui fa parte rappresentano solo un piccolo segmento dei cristiani americani, in larga parte ostili ai diritti civili e alla separazione tra Stato e Chiesa. Secondo un recente sondaggio realizzato dal Pew Review Center tre protestanti bianchi su quattro considerano l’aborto un omicidio “in ogni caso” e vorrebbero che fosse illegale in tutto il territorio federale. Ma queste cifre cambiano in modo notevole se consideriamo i protestanti afroamericani (una comunità molto più colpita dal dramma delle gravidanze in giovanissima età) le proporzioni si ribaltano e persino tra i bianchi non evangelici la maggioranza è favorevole alla legge che autorizza l’interruzione di gravidanza.