«Basta giudici che abbandonano il processo», Ucpi in rivolta
Da oggi la due giorni di astensione dalle udienze, domani la manifestazione dei penalisti a Roma: il nodo sono le conseguenze della “Bajrami”, con le sentenze quasi mai emesse dallo stesso giudice che ha raccolto la prova
«Changez les dames/ Changez les dames/Je vous en prie/Changez les dames/Changez les dames/C’est la folie».
La quadriglia: ecco quale sembianza hanno assunto, in molti tribunali italiani, i processi penali dopo l’avvento della sentenza n. 41736/2019, meglio nota come Sezioni Unite Bajrami.
Scongiurato -di fatto- il rischio che la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in caso di mutamento del giudice, determini la nullità della sentenza, gli avvicendamenti di toghe si susseguono sempre più disinvolti e frenetici, da un’udienza all’altra e per i motivi più disparati. Quando si svolga in plurime udienze (praticamente sempre), il dibattimento è ormai celebrato da molteplici officianti e chi prende la deliberazione finale troppo spesso non coincide con chi ha assunto la prova.
Un efficientismo mascherato da nomofilachìa ha cancellato il principio di immediatezza e oralità, stabilito dall’art. 111 comma 3 Costituzione e dal combinato disposto degli artt. 525 comma 2, 526 comma 1 e 511 Cpp; nonché scaricato sugli imputati il costo dell’inettitudine del sistema a garantire che la decisione sia proprio di quel giudice dinanzi al quale la prova si è formata nel contraddittorio delle parti. La fascinazione, tutta inquisitoria, per i verbali e il processo di carta, ha prevalso sulla naturale aspirazione di essere giudicati da chi, anziché aver scorso righe d’inchiostro, abbia guardato in faccia persone vive.
La rinnovazione è osteggiata come inutile perdita di tempo, quasi non contassero -per valutare l’attendibilità di una deposizione- i suoi tratti prosodici e paralinguistici; in parole povere, il contegno espressivo dell’interrogato. Un’ostilità che racconta la distanza astrale che separa la concezione di ruolo diffusa all’interno della nostra magistratura dall’idea del giudicare come «dolorosa necessità», come «continuo sacrificarsi all’inquietudine e al dubbio», tanto per citare un autore il cui appena trascorso centenario di nascita ha fatto riempire bocca e penna a diversi esponenti dell’ordine giudiziario.
C’è di più: la “regola” Bajrami, come la definirebbero gli zelanti estimatori del formante giurisprudenziale, si pone in stridente contrasto con il principio di legalità processuale, affermato dagli articoli 101 comma 2 e 111 comma 1 Costituzione.
Siamo, in effetti, dinanzi a un caso paradigmatico di creazione giudiziaria della norma di procedura, ben lontana da una fisiologica attività interpretativa rispettosa della cornice del testo.
Le Sezioni Unite si son fatte legislatore, giocando d’anticipo su quest’ultimo nello sfruttare il formidabile assist anti immediatezza che la Corte costituzionale, con la decisione 132/2019, aveva solo pochi mesi prima servito su un piatto d’argento. Non può scordarsi, infatti, che la prima picconata al diritto alla rinnovazione della prova fu sferrata proprio dalla Consulta, con un provvedimento di inammissibilità inopinatamente condito da suggerimenti (videoregistrazione) volti a (s)bilanciare quel diritto difensivo con il principio di durata ragionevole, comunque letto in chiave efficientista (guardando alla composizione del collegio che deliberò la 132, non sorprende che la legge delega di riforma del processo penale abbia ricalcato quella soluzione).
Lascia ammutoliti constatare come né Corte costituzionale né Supremo Collegio abbiano accennato alle cause determinanti il mutamento del giudice: fino ai perversi effetti da bomba libero tutti della “regola” Bajrami, fuori da rare iatture ed eventi calamitosi, o da limiti di permanenza ultradecennale, i componenti di un tribunale -magistrati costituzionalmente inamovibili- cambiavano perché volontariamente traslati ad altre funzioni o sedi.
Data la premessa, può un simulacro di efficienza del sistema esser garantito scaricando sugli imputati le conseguenze di (pur legittime) scelte di carriera dei giudicanti?
Non è comprimendo il principio di immediatezza-oralità che si rimedia all’incapacità della macchina di funzionare come imporrebbe la legge (art. 477 commi 1 e 2 C.p.p.). Si stabilisca, piuttosto, nell’interesse del buon andamento dell’amministrazione della giustizia, che il magistrato, prima di aver esaurito il proprio ruolo, non possa abbandonare il lavoro iniziato: l’identità tra giudice della decisione e quello dell’assunzione della prova verrebbe così salvaguardata al pari della durata ragionevole dei processi.
Conclusivamente: lasciamo la quadriglia alle feste popolari perché, come ben sanno i penalisti in astensione da ieri dalle udienze, la folie non giova al giusto processo. Per approfondire maggiormente la questione domani nella Capitale, dalle 9.30 al Centro congressi Roma eventi, ci sarà una manifestazione di confronto da avvocatura e studiosi del processo organizzata appunto dell’Unione Camere Penali.
*Responsabile Centro studi “Aldo Marongiu” dell’Ucpi
«Basta giudici che abbandonano il processo», Ucpi in rivolta
«Changez les dames/ Changez les dames/Je vous en prie/Changez les dames/Changez les dames/C’est la folie».
La quadriglia: ecco quale sembianza hanno assunto, in molti tribunali italiani, i processi penali dopo l’avvento della sentenza n. 41736/2019, meglio nota come Sezioni Unite Bajrami.
Scongiurato -di fatto- il rischio che la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in caso di mutamento del giudice, determini la nullità della sentenza, gli avvicendamenti di toghe si susseguono sempre più disinvolti e frenetici, da un’udienza all’altra e per i motivi più disparati. Quando si svolga in plurime udienze (praticamente sempre), il dibattimento è ormai celebrato da molteplici officianti e chi prende la deliberazione finale troppo spesso non coincide con chi ha assunto la prova.
Un efficientismo mascherato da nomofilachìa ha cancellato il principio di immediatezza e oralità, stabilito dall’art. 111 comma 3 Costituzione e dal combinato disposto degli artt. 525 comma 2, 526 comma 1 e 511 Cpp; nonché scaricato sugli imputati il costo dell’inettitudine del sistema a garantire che la decisione sia proprio di quel giudice dinanzi al quale la prova si è formata nel contraddittorio delle parti. La fascinazione, tutta inquisitoria, per i verbali e il processo di carta, ha prevalso sulla naturale aspirazione di essere giudicati da chi, anziché aver scorso righe d’inchiostro, abbia guardato in faccia persone vive.
La rinnovazione è osteggiata come inutile perdita di tempo, quasi non contassero -per valutare l’attendibilità di una deposizione- i suoi tratti prosodici e paralinguistici; in parole povere, il contegno espressivo dell’interrogato. Un’ostilità che racconta la distanza astrale che separa la concezione di ruolo diffusa all’interno della nostra magistratura dall’idea del giudicare come «dolorosa necessità», come «continuo sacrificarsi all’inquietudine e al dubbio», tanto per citare un autore il cui appena trascorso centenario di nascita ha fatto riempire bocca e penna a diversi esponenti dell’ordine giudiziario.
C’è di più: la “regola” Bajrami, come la definirebbero gli zelanti estimatori del formante giurisprudenziale, si pone in stridente contrasto con il principio di legalità processuale, affermato dagli articoli 101 comma 2 e 111 comma 1 Costituzione.
Siamo, in effetti, dinanzi a un caso paradigmatico di creazione giudiziaria della norma di procedura, ben lontana da una fisiologica attività interpretativa rispettosa della cornice del testo.
Le Sezioni Unite si son fatte legislatore, giocando d’anticipo su quest’ultimo nello sfruttare il formidabile assist anti immediatezza che la Corte costituzionale, con la decisione 132/2019, aveva solo pochi mesi prima servito su un piatto d’argento. Non può scordarsi, infatti, che la prima picconata al diritto alla rinnovazione della prova fu sferrata proprio dalla Consulta, con un provvedimento di inammissibilità inopinatamente condito da suggerimenti (videoregistrazione) volti a (s)bilanciare quel diritto difensivo con il principio di durata ragionevole, comunque letto in chiave efficientista (guardando alla composizione del collegio che deliberò la 132, non sorprende che la legge delega di riforma del processo penale abbia ricalcato quella soluzione).
Lascia ammutoliti constatare come né Corte costituzionale né Supremo Collegio abbiano accennato alle cause determinanti il mutamento del giudice: fino ai perversi effetti da bomba libero tutti della “regola” Bajrami, fuori da rare iatture ed eventi calamitosi, o da limiti di permanenza ultradecennale, i componenti di un tribunale -magistrati costituzionalmente inamovibili- cambiavano perché volontariamente traslati ad altre funzioni o sedi.
Data la premessa, può un simulacro di efficienza del sistema esser garantito scaricando sugli imputati le conseguenze di (pur legittime) scelte di carriera dei giudicanti?
Non è comprimendo il principio di immediatezza-oralità che si rimedia all’incapacità della macchina di funzionare come imporrebbe la legge (art. 477 commi 1 e 2 C.p.p.). Si stabilisca, piuttosto, nell’interesse del buon andamento dell’amministrazione della giustizia, che il magistrato, prima di aver esaurito il proprio ruolo, non possa abbandonare il lavoro iniziato: l’identità tra giudice della decisione e quello dell’assunzione della prova verrebbe così salvaguardata al pari della durata ragionevole dei processi.
Conclusivamente: lasciamo la quadriglia alle feste popolari perché, come ben sanno i penalisti in astensione da ieri dalle udienze, la folie non giova al giusto processo. Per approfondire maggiormente la questione domani nella Capitale, dalle 9.30 al Centro congressi Roma eventi, ci sarà una manifestazione di confronto da avvocatura e studiosi del processo organizzata appunto dell’Unione Camere Penali.
*Responsabile Centro studi “Aldo Marongiu” dell’Ucpi
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