Viste la rabbia, la delusione e non ricordo quant’altro espresse nella sua Napoli in occasione della giornata del rifugiato, che in verità c’entrava poco con la scissione del pur suo movimento appena annunciata da Luigi Di Maio e amici, dev’essere costato molto sul piano umano e politico a Roberto Fico leggere personalmente mercoledì mattina nell’aula di Montecitorio la lunga lista dei deputati scesi dalle 5 Stelle per cercare un altro futuro. Che è il nome almeno per ora assegnato neppure al loro nuovo dichiarato partito, ma ad un più generico “progetto”.

Fico avrebbe potuto risparmiarsi quello scomodo passaggio lasciando presiedere la seduta a uno dei suoi vice, ma eroicamente - si potrebbe dire a quel punto - non ha voluto sottrarsi al compito impostogli dalla carica e dal regolamento. Le istituzioni sono le istituzioni, appunto, e vanno rispettate qualunque sia l’opinione o il solo umore avvertito per fatti e persone che in qualche modo le investono. Ben fatto, quindi.

Ma proprio per questo principio, una volta formalizzata la scissione e avviata sui binari dovuti la costituzione di un nuovo gruppo alla Camera da lui presieduta, con tanto di diritti riconosciuti dal regolamento e dalla prassi costituzionale, che ne comporta per esempio la consultazione da parte del presidente della Repubblica in occasione delle crisi di governo, forse Fico avrebbe dovuto risparmiarsi quella successiva passeggiata con Giuseppe Conte, o al suo seguito, come qualche passante avrà forse potuto pensare, verso la sede del movimento 5 Stelle e un bar adiacente. Davanti al quale egli invece ha ritenuto di potersi anche fermare per rispondere ai soliti giornalisti con microfoni, telecamere e telefonini audiovisivi smaniosi di raccoglierne altri giudizi sulla scissione per la quale egli aveva già espresso - ripeto - rabbia e delusione prima della formalizzazione.

«Operazione di potere», ha risposto Fico. «Operazione di palazzo», ha riferito qualcuno non so se forzandogli la lingua, o cogliendone effettivamente la parola ad assembramento ancora aperto ma a microfoni spenti. Beh, su questo, senza volergli mancare di riguardo personale ma con tutta la modestia di un vecchio giornalista che ha trascorso buona parte della sua vita professionale tra corridoi, sale stampa e tribune del Parlamento, mi permetto di dissentire dalla pur apprezzabile franchezza del presidente della Camera. Che come tale, senza essersene reso forse conto, ha finito per esercitare un’opera di dissuasione di dubbia regolarità o opportunità in un’operazione politica com’è quella avviata legittimamente da parlamentari eletti come lui o anche investiti di ruoli istituzionali quali esponenti del governo, a cominciare naturalmente dal ministro degli Esteri.

Per chi è o potrebbe essere chiamato, ancora sotto le cinque stelle o altrove, a seguire Di Maio e la sessantina di parlamentari già raccoltisi attorno a lui nella nuova esperienza o sfida politica, chiamiamola come volete, non credo che sia indifferente il giudizio così duro di «operazione di potere» espresso dal presidente della Camera. Che si presume, fra l’altro, possa disporre di maggiori notizie o elementi di valutazione rispetto a un comune cittadino e persino di una stampa libera e smaliziata, o maliziosa, come la nostra.

Dobbiamo evidentemente mettere anche questa nel conto delle anomalie, particolarità, sorprese della non comune legislatura in corso. Un conto dal quale tuttavia sono sicuro che Fico ci risparmierebbe lo spettacolo offerto invece nel 2010 dall’allora presidente della Camera Gianfranco Fini. Che dopo avere rotto personalmente con l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, o averne subito - a suo avviso - la sostanziale espulsione dal comune partito, il Pdl, ritenne di ospitare nel proprio ufficio a Montecitorio i promotori di una mozione ritorsiva di sfiducia. Che fu peraltro clamorosamente respinta.

Il governo ora in carica è quello di Mario Draghi, per la cui maggiore stabilità, ritenendolo insidiato da quel che rimane del MoVimento 5 Stelle, Di Maio ha promosso la scissione. E alla cui partecipazione o al cui appoggio sino alla fine della legislatura Giuseppe Conte, resistendo alle domande incalzanti di Lilli Gruber a Otto e mezzo dell’altra sera, non ha voluto impegnarsi preferendo dire che lo sosterrà sino a quando sarà possibile al suo partito difendere gli interessi nazionali, con tutta la discrezionalità politica che comporta una formula del genere. Esiste d’altronde una certa dialettica sotto ciò ch’è rimasto delle cinque stelle sulla opportunità, utilità o quant’altro di arrivare così al rinnovo ordinario delle Camere, fra meno di un anno.