Leggere, contare e “pesare” la scissione di Luigi Di Maio come fosse quella di un Giarrusso qualsiasi, una questione caratteriale, di antipatie tra gruppi dirigenti, o del proprio personale “destino”, diversa solo perché numericamente significativa e inzeppata di cariche istituzionali, non ci aiuta molto a capire quello che sta accadendo dentro il Movimento 5Stelle. Fenomeno su cui si sono impegnati fior di analisti e sociologi nostrani e internazionali della politica - visto il suo straordinario impatto. Spesso, senza venirne a capo, talmente sfuggente era. Proprio come sfuggente era il suo composito elettorato. Che non era “né di destra né di sinistra”, ma di destra e di sinistra - in una convivenza contro natura dove stavano insieme i fautori del reddito di cittadinanza, una misura “umanitaria”, e i più accaniti giustizialisti. D’altra parte, il passaggio, nel volgere di una notte, da un governo giallo-verde, con la Lega, a un governo giallo-rosso, con il Pd, non era solo una “scenografia esemplare” di questo strano impasto, ma un modo, un metodo del governare. A ogni costo, con chiunque, con il miglior offerente. D’altronde, fu il nocciolo della decisione di Beppe Grillo di appoggiare senza se e senza ma l’avvento di Draghi - piroettando su una “transizione ecologica” che non passarono molti giorni si affrettò a ripudiare, ma intanto era fatta: erano ancora al governo. Viene perciò difficile ricavare una qualche frattura di contenuti - anche di quelli “enormi” tirati in ballo come la guerra, l’atlantismo e l’europeismo. I Cinquestelle Cinquestelle Cinquestelle sono così: gli dici che non sono atlantisti, e loro: ma come noi, siamo i più fedeli alleati della Nato; gli dici che sono anti-europeisti, e loro: ma come, noi in Europa ci siamo battuti più di tutti per il Pnrr. Si può praticamente dire tutto e il suo contrario, e tutto si terrebbe nei dettagli, nelle sfumature, nei cavilli.Certo, c’è stato un combinato disposto che ha accelerato la scelta di Di Maio: la sentenza di Napoli, che non metteva in discussione più la leadership di Conte (e chissà cosa sarebbe successo, se invece l’incontrario); e la crescita dei rumors su una possibile “mozione contro le armi” che non solo avrebbe potuto mettere in difficoltà il governo ma lui stesso medesimo Di Maio che, comunque, da ministro degli Esteri è il portavoce internazionale dell’Italia, nei rapporti con gli altri paesi, e la cui credibilità di “parola” in un qualunque impegno sarebbe stata da quel momento uguale a zero carbonella. Pensate, l’Unione europea ci chiede di mandare dei carri armati in Ucraina, e noi che rispondiamo a Ursula von der Leyen? No, bisogna prima fare la consultazione dei Cinquestelle sulla piattaforma Sky Vote. Sì, ciao core.La verità è che è stato proprio Draghi e mettere in crisi quella particolare specie di “populismo italiano”, la cui essenza era di stare contemporaneamente nella piazza a berciare e ai ministeri a governare - vale per la Lega, vale per i Cinquestelle - in un pericoloso cortocircuito per cui il ministro dell’Interno si comportava come uno pronto alle barricate contro l’invasione dei migranti o i ministri 5S si affacciavano al balcone di piazza Venezia per dichiarare “finita la povertà”. Al governo si sta al governo, in piazza si sta in piazza - semplice, no? Forse, perciò si può tentare di capire gli effetti della scissione di Di Maio guardando cosa significa “a casa degli altri”. Il primo “effetto collaterale” della scissione di Di Maio è che Salvini potrebbe davvero trovarsi di fronte a una scissione in casa propria: l’insofferenza da tempo palese tra i “governativi” (Giorgetti, Fedriga, Zaia - per fare qualche nome) e gli “agitatori” (lui medesimo) potrebbe tradursi in un gesto simile. Yes, they can. Il secondo “effetto collaterale” è che la linea di Enrico Letta, che ha puntato decisamente e insistentemente sul “campo largo” con Conte, ne esce in difficoltà: i Cinquestelle sono sempre più in caduta libera e pensare a una rifondazione del centro-sinistra con loro è come giocare alla roulette russa. Tanto per fare un esempio: inizieranno tra un po’ le “primarie presidenziali” in Sicilia per scegliere il candidato a governatore e Letta e Conte hanno dato un grande risalto a questa iniziativa. In Sicilia, però, la “corrente” dimaiana è forte: parteciperà alle primarie? Esprimerà un proprio candidato? Tagliare fuori i dimaiani in Sicilia, escludendoli non solo lì dal “campo largo”, non è darsi una martellata? Concorreranno dimaiani e contiani nella stessa area ma l’un contro l’altro armati per lo stesso elettorato? E Letta non rischia di restarne schiacciato? Il terzo "effetto collaterale" accade nell’area “draghiana”, quel venti per cento di cui si favoleggia, e che però potrebbe davvero cominciare a prendere corpo - a esempio con un possibile prossimo arrivo di Mara Carfagna, che ormai gioca in proprio, e dove già stazionano Toti, Quagliarella, Calenda e Renzi. A quest’ultimo, infine, va dato atto di estrema lucidità politica, tanta quanta l’insopportabilità del suo carattere che è la cosa che più lo penalizza, nella sua ostinazione contro i Cinquestelle: aveva ragione. Diciamo che il sasso lanciato da Di Maio sta lasciando onde.