Forse è su questo che dovremmo interrogarci nel cercare di capire e commentare le fibrillazioni che stanno accadendo, in contemporanea, nelle due formazioni politiche che più di tutte hanno rappresentato in questi anni la “pancia del paese”, ovvero Lega e Cinquestelle. Perché è innegabile che di alcuni fenomeni sociali e epocali che ci hanno investito – come le migrazioni e la digitalizzazione – o di alcune “questioni” dai caratteri istituzionali o dai risvolti sociali – come l’autonomia differenziata o le grandi opere e il reddito di cittadinanza – Lega e Cinquestelle ne hanno rappresentato “la voce”, spesso radicalizzata, spesso sopra le righe. Spesso inconcludente. Che dentro la Lega e dentro i Cinquestelle, il “dissidio” si sia aperto tra un’ala governista (i Giorgetti, Zaia, Fedriga per l’una, e i Di Maio, eccetera per gli altri) e la direzione politica (Salvini e Conte) che sembra sempre sul punto di mandare tutto all’aria per riprendere toni barricaderi (siano le tasse o la guerra) – fino al rischio che entrambi i partiti si spacchino – è proprio il nocciolo della questione. Che vorrei però provare a vedere tirandosi fuori dai conflitti dentro le formazioni politiche. Provando appunto a interrogarsi sulla pancia del paese. Per capire cosa sta accadendo a questo paese dovremmo ripensare a tutto quello che è accaduto da quando è esploso il contagio prima, e da quando è scoppiata la guerra, dopo. La paura, il dolore, lo smarrimento, il lutto dei primi giorni, quando il contagio si abbatté su Bergamo e la Lombardia (i camion militari con le bare) e che potevano costituire un “comune sentimento popolare” non sono mai riusciti a diventare “politica” – pure che la rabbia e la frustrazione contro l’inadeguatezza, per usare un eufemismo, delle classi dirigenti andavano crescendo. Si sono invece trasformati, soprattutto all’arrivo del vaccino e al varo delle “misure di contenimento” quale il green-pass, in un pensiero magico (il 5G, il complotto per la de-popolazione, gli interessi di Big Pharma, lo stato d’eccezione ormai conclamato) e in una vuota radicalizzazione (da Trieste a Roma, con l’assalto alla Camera del lavoro, di cui non si capiva francamente “la pertinenza”) che riempivano il vuoto di un pensiero e di una proposta politica. Non solo tutto questo non è servito a nulla – a parte l’avere amplificato i timori e le diffidenze popolari sulla vaccinazione che hanno finito con l’accumulare ancora morti su morti – ma quando questo pensiero magico ha provato a “mettersi in proprio” politicamente, con liste elettorali, cioè a ritagliarsi uno spazio per sottrarlo a quelle forze politiche che più vi occhieggiavano (ovvero Lega e Cinquestelle), ha fatto flop miseramente. Ne è venuto, a livello sociale, una sorta di rassegnazione, un vaccinarsi per obbligo, dove necessario, un lento disinteresse, una “naturalizzazione” del contagio, una convivenza coatta. Che ancora durano. In questo sentimento, è scoppiata la guerra. Che, proprio perché non c’era stata capacità di trasformare il contagio in politica, ha riproposto pari pari (in alcuni casi, con le medesime persone) “la forma” di sentimento con cui a livello sociale si è guardato all’inizio alla guerra – la paura, il dolore, lo smarrimento, il lutto dei primi giorni – e poi progressivamente l’emergere di un nuovo pensiero magico e di una nuova vacua radicalizzazione. Fino alla lenta rassegnazione, quando non all’indifferenza. In tutto questo, proprio le forze politiche più permeabili alla “pancia del paese” sono implose. E sono implose perché tra l’una piaga – il contagio – e l’altra – la guerra – è apparso il governo Draghi. L’effetto politico del governo più impolitico della storia repubblicana di questo paese è stato quello di avere fatto implodere le contraddizioni dentro la Lega e dentro i Cinquestelle. Non è solo l’accumularsi delle contraddizioni irrisolte – ciascuna, a seconda – dentro quelle forze politiche che ne sta provocando a crisi: è che Draghi ne sta provocando la crisi. Forse non è casuale che, almeno emblematicamente, le due forze politiche che meno stanno soffrendo il governo Draghi sono una, quella che l’ha abbracciato convintamente, il Pd, e l’altra, quella che vi si è opposta convintamente, Fratelli d’Italia. Ora, questo è un po’ il nocciolo delle mie chiacchiere, quello che voglio dire è che il governo Draghi in questo momento “rappresenta” forse la pancia del paese, il suo passaggio. Con un calembour, direi: il suo "travaglio". Non intendo “l’area Draghi”, quella su cui si vanno accapigliando Calenda e Renzi, scommettendo su un futuro di “terza forza”. Draghi è molto di più di un venti percento, molto di più di una terza forza, in questo momento. I populismi forse non sono morti – ma di certo non stanno tanto bene. Draghi (un "commissario", non un sindaco – anche se a volte mi ricorda lo slogan che Jacques Séguéla inventò per Mitterrand: "un force tranquille", senza alcun paragone fra i due) non è uomo da suscitare entusiasmi sociali, e infatti non è esattamente questo che io credo “rappresenti” in questo momento. Che non è un momento di entusiasmi sociali.