Uno su otto: è la ridicola percentuale di referendum abrogativi che ha raggiunto il quorum del 50% negli ultimi 25 anni di storia repubblicana. Era il 2011 e si votava per i “beni comuni”, in particolare l’acqua pubblica. Per il resto sette consultazioni e decine e decine di quesiti soffocati in culla, con la malinconica e annunciata diserzione degli italiani i quali, piuttosto che andare alle urne per scrivere un “sì” o in “no”, preferiscono passare la domenica in tangenziale a litigare con la famiglia.

E a poco serve il vittimismo sull’informazione che “oscura” il dibattito, su quelle forze politiche che da quando è nato il mondo invitano ad “andare al mare”, sulla Consulta che in modo capzioso ha stralciato i quesiti su eutanasia e cannabis condannando a morte i restanti, sugli italiani qualunquisti e privi di fibra civica. Sono riti consolatori e anche decisamente stralunati: se l’astensionismo raggiunge l’ 80% ed è una tendenza inarrestabile, dare la colpa agli elettori non è un metodo che porti granché lontano.

Non sarebbe invece il caso di ripensare all’utilizzo bulimico che è stato fatto dello strumento referendario negli ultimi decenni? È inutile mentirsi, le appassionate campagne degli anni 70 su divorzio e aborto o quelle successive sull’energia nucleare sono immagini sfocate di un’Italia che non c’è più, se allora i referendum erano considerate come occasioni preziose per far avanzare i diritti esercitando la democrazia diretta, oggi sono visti come un fastidio, una perdita di tempo, con i loro quesiti scritti in burocratese e infarciti di tecnicismi incomprensibili. Chi li ha promossi a grappoli, accorpando temi importanti a questioni surreali sottoponendoci temi come l’ abrogazione delle trattenute associative sindacali ( 2000) o dell'obbligo per i proprietari terrieri di dar passaggio alle condutture elettriche sui loro terreni ( 2003), non ha reso un buon servizio alla sua causa, alla nostra causa.

Non è un caso che la più concreta avanzata sui diritti che ha conosciuto il nostro paese negli ultimi anni, ovvero la legge numero 76 sulle unioni civili approvata dal governo Renzi nel maggio 2016, è nata dal lavoro dei parlamentari e delle commissioni e non per volontà popolare. La via da percorrere è quella e non potrebbe essere altrimenti in una democrazia rappresentativa.

Certo, ci sarebbe bisogno di maggioranze parlamentari forti e legittimate: l’immobilismo della classe politica, la fragilità delle coalizioni, la “campagna elettorale permanente” che caratterizza l’azione dei partiti, la scarsa inclinazione per l’interesse generale, sono tutti elementi che, al contrario, non sembrano forieri di grandi stagioni riformatrici.

Spesso i comitati referendari ricorrono alle raccolte firme per frustrazione, dopo anni di battaglie con il muro di gomma del palazzo, con la “palude” romana che mortifica ogni slancio e iniziativa. Ma questa scelta si è dimostrata sbagliata e autolesionista; insistere ancora con le chiamate alle urne è solamente un atto di testardaggine, il naufragio di domenica sera dovrebbe bastare a convincere tutti.

C’è poi chi si indigna per la stessa esistenza del quorum e ne chiede a gran voce l’abolizione: se il vincolo del 50% dei voti non è previsto per l’elezione di parlamento e senato perché mai dovrebbe esistere per rendere validi i referendum? Il ragionamento non è del tutto sbagliato anche se non si tratta di consultazioni equivalenti. Ma bisognava pensarci prima e lavorare per riformare lo strumento invece di piagnucolare a cose fatte, come d’altra parte accade ogni volta dopo la sconfitta.

La soluzione per uscire dall’impasse? Che la politica torni a fare il suo mestiere, esercitando a pieno la delega democratica che le attribuisce la nostra Costituzione e che quindi torni a concepire, elaborare e approvare leggi e magari riforme di più largo respiro. Di sicuro per molto tempo non potrà più affidarsi alla scorciatoia dei referendum sperando che gli elettori facciano al suo posto il” lavoro sporco”.