Magari si potesse liquidare il naufragio dei referendum sulla giustizia nell’astensionismo, per la mancata affluenza alle urne della metà più uno degli elettori aventi diritto al voto come frutto inevitabile del “cinismo” e dei “pasticci” della Lega. Lo hanno fatto anche il nuovo e il vecchio giornale di Carlo De Benedetti: Domani prevedendo di domenica il risultato e Repubblica commentandolo lunedì.
La Lega, in effetti, sin dal primo momento era apparsa una curiosa alleata dei radicali di consolidata tradizione garantista – tradita solo nella campagna del 1978 contro Giovanni Leone al Quirinale nella promozione dei quesiti abrogativi e nella raccolta delle firme. Alle quali peraltro, quasi per diminuirne l’importanza o per timore che non potessero risultare valide abbastanza, i leghisti preferirono l’anno scorso, per il deposito alla Cassazione, le richieste abrogative formulate dalle regioni governate da un centrodestra neppure compatto nel contestare le norme e leggi prese di mira dall’iniziativa referendaria.
La destra di Giorgia Meloni, che peraltro contende ormai la guida della coalizione alla Lega in retrocessione, non se l’è notoriamente sentita di contestare anche la cosiddetta legge Severino, pur costata il seggio del Senato al Cavaliere nel 2013 per la condanna definitiva ma contestata per frode fiscale, e le norme sulla “custodia cautelare”, cioè sulle manette, nella fase delle indagini preliminari.
Magari, dicevo, potessimo liquidare il naufragio referendario attribuendone la colpa al Carroccio e a Salvini in persona – aggiungo – per le troppe cause disinvoltamente sostenute negli ultimi mesi, fra cui il velleitario e confuso progetto di viaggio a Mosca, con tanto di assistenza anche economica dell’ambasciata russa a Roma, per sorpassare di fatto il governo Draghi nei contatti con Putin. Dal quale è incontrovertibilmente partita la guerra di aggressione all’Ucraina secondo valutazioni condivise in Parlamento anche dalla Lega e servite per partecipare agli aiuti militari occidentali a Kiev.
I referendum sulla giustizia non c’entrano, d’accordo, col pacifismo avvertito e cavalcato da Salvini, ma – ripeto – qualche ricaduta su di essi non può essere esclusa per la ridotta credibilità di un leader che si stenta francamente a inseguire all’interno del suo stesso partito, tanto fitte sono le sue agende, a dir poco.
La verità è che – per fortuna della magistratura più politicizzata interessata a proteggere le sue abitudini di lavoro e le sue prerogative anche dall’abrogazione popolare delle norme che le tutelano – i referendum sono stati ormai uccisi in via generale dall’astensionismo. Si è consumato domenica un referendicidio, ormai. Se lo metta in testa anche Matteo Renzi, che pensa di praticare questa strada anche contro il reddito di cittadinanza, visto l’uso che se n’è fatto.
Quella metà più uno degli elettori partecipanti al voto come condizione di validità del risultato di una prova referendaria abrogativa era logica, naturale più di 70 anni fa, quando fu messa nella Costituzione e l’affluenza alle urne nelle elezioni di ogni tipo, dopo più di vent’anni di dittatura, e nelle condizioni persino emotive di mobilitazione popolare nel primo dopoguerra, era generalmente di oltre l’ 80 per cento, e persino 90. Oggi per demerito della politica, ma anche per una lunga, naturale evoluzione dei costumi, laica potremmo dire se della stessa politica si avesse una concezione quasi religiosa, quelle percentuali sono semplicemente da sogno. E così pure il quorum dei referendum abrogativi, di cui non a caso si è progettata – senza riuscire, come al solito, a realizzarla una modifica costituzionale per rapportarlo alla media di affluenza alle urne delle ultime tornate elettorali politiche.
Sino a quando non si farà un cambiamento del genere, sarà semplicemente inutile puntare sui referendum abrogativi, nonostante i grandi servizi resi da essi nella causa del divorzio, nel 1974, o nello stesso campo della giustizia nel 1987, con un risultato sulla responsabilità civile dei magistrati scandalosamente tradito in pochi mesi dalle Camere con una nuova legge. Bisognerà puntare solo sulla capacità riformatrice del Parlamento. Ma al solo pensarci mi viene l’orticaria, nella confusione politica che temo cominci a far paura anche a uno della solidità di nervi come Mario Draghi.
Magari il flop fosse tutta colpa del Carroccio e di Salvini…
Magari si potesse liquidare il naufragio dei referendum sulla giustizia nell’astensionismo, per la mancata affluenza alle urne della metà più uno degli elettori aventi diritto al voto come frutto inevitabile del “cinismo” e dei “pasticci” della Lega. Lo hanno fatto anche il nuovo e il vecchio giornale di Carlo De Benedetti: Domani prevedendo di domenica il risultato e Repubblica commentandolo lunedì.
La Lega, in effetti, sin dal primo momento era apparsa una curiosa alleata dei radicali di consolidata tradizione garantista – tradita solo nella campagna del 1978 contro Giovanni Leone al Quirinale nella promozione dei quesiti abrogativi e nella raccolta delle firme. Alle quali peraltro, quasi per diminuirne l’importanza o per timore che non potessero risultare valide abbastanza, i leghisti preferirono l’anno scorso, per il deposito alla Cassazione, le richieste abrogative formulate dalle regioni governate da un centrodestra neppure compatto nel contestare le norme e leggi prese di mira dall’iniziativa referendaria.
La destra di Giorgia Meloni, che peraltro contende ormai la guida della coalizione alla Lega in retrocessione, non se l’è notoriamente sentita di contestare anche la cosiddetta legge Severino, pur costata il seggio del Senato al Cavaliere nel 2013 per la condanna definitiva ma contestata per frode fiscale, e le norme sulla “custodia cautelare”, cioè sulle manette, nella fase delle indagini preliminari.
Magari, dicevo, potessimo liquidare il naufragio referendario attribuendone la colpa al Carroccio e a Salvini in persona – aggiungo – per le troppe cause disinvoltamente sostenute negli ultimi mesi, fra cui il velleitario e confuso progetto di viaggio a Mosca, con tanto di assistenza anche economica dell’ambasciata russa a Roma, per sorpassare di fatto il governo Draghi nei contatti con Putin. Dal quale è incontrovertibilmente partita la guerra di aggressione all’Ucraina secondo valutazioni condivise in Parlamento anche dalla Lega e servite per partecipare agli aiuti militari occidentali a Kiev.
I referendum sulla giustizia non c’entrano, d’accordo, col pacifismo avvertito e cavalcato da Salvini, ma – ripeto – qualche ricaduta su di essi non può essere esclusa per la ridotta credibilità di un leader che si stenta francamente a inseguire all’interno del suo stesso partito, tanto fitte sono le sue agende, a dir poco.
La verità è che – per fortuna della magistratura più politicizzata interessata a proteggere le sue abitudini di lavoro e le sue prerogative anche dall’abrogazione popolare delle norme che le tutelano – i referendum sono stati ormai uccisi in via generale dall’astensionismo. Si è consumato domenica un referendicidio, ormai. Se lo metta in testa anche Matteo Renzi, che pensa di praticare questa strada anche contro il reddito di cittadinanza, visto l’uso che se n’è fatto.
Quella metà più uno degli elettori partecipanti al voto come condizione di validità del risultato di una prova referendaria abrogativa era logica, naturale più di 70 anni fa, quando fu messa nella Costituzione e l’affluenza alle urne nelle elezioni di ogni tipo, dopo più di vent’anni di dittatura, e nelle condizioni persino emotive di mobilitazione popolare nel primo dopoguerra, era generalmente di oltre l’ 80 per cento, e persino 90. Oggi per demerito della politica, ma anche per una lunga, naturale evoluzione dei costumi, laica potremmo dire se della stessa politica si avesse una concezione quasi religiosa, quelle percentuali sono semplicemente da sogno. E così pure il quorum dei referendum abrogativi, di cui non a caso si è progettata – senza riuscire, come al solito, a realizzarla una modifica costituzionale per rapportarlo alla media di affluenza alle urne delle ultime tornate elettorali politiche.
Sino a quando non si farà un cambiamento del genere, sarà semplicemente inutile puntare sui referendum abrogativi, nonostante i grandi servizi resi da essi nella causa del divorzio, nel 1974, o nello stesso campo della giustizia nel 1987, con un risultato sulla responsabilità civile dei magistrati scandalosamente tradito in pochi mesi dalle Camere con una nuova legge. Bisognerà puntare solo sulla capacità riformatrice del Parlamento. Ma al solo pensarci mi viene l’orticaria, nella confusione politica che temo cominci a far paura anche a uno della solidità di nervi come Mario Draghi.
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