Il disastro dei referendum ha molte origini ma un solo volto: quello di Matteo Salvini. La sconfitta del leader leghista è piena, indiscutibile da qualsiasi angolazione si analizzino i risultati. L'ex ministro degli Interni aveva raccolto le firme e scommesso sui quesiti. Ne aveva fatto una battaglia personale persino più di un Silvio Berlusconi che ha invece evitato di esporsi troppo, probabilmente perché consapevole del danno che avrebbe arrecato proponendo un nuovo round dell'eterna ordalia tra lui e le toghe. Ma se si fosse fermata qui la batosta per il leader della Lega sarebbe stata di pesantezza limitata. Erano stati esclusi i referendum davvero avvertiti come urgenti dall'elettorato, in particolare quello sulla Cannabis. I quesiti, già riferiti a una materia molto tecnica, erano tanto incomprensibili da sconfinare nell'autolesionismo. L'informazione ha fatto del suo meglio per non informare. La mancata conquista del quorum sarebbe stata giustificabile. Solo che è andata molto peggio. La percentuale miserrima dei votanti in referendum che erano comunque sostenuti da partiti che rappresentano metà dell'elettorato rivela che la base di quei partiti ha scelto di non seguire le indicazioni dei leader e in particolare di quello che più di ogni altro si è dato da fare. In compenso la sua presenza ha probabilmente spinto alcuni, forse molti, che avrebbero votato sì ad astenersi per non essere complici di una campagna palesemente strumentale. Alla sincerità del garantismo di Salvini non poteva credere nessuno. Le prime analisi disarticolate del voto veicolano una sentenza per il capo della Lega ancor più severa: tra gli elettori della destra quelli della Lega hanno disertato le urne anche più degli altri. Tra i pochi elettori, inoltre, una percentuale molto alta, oltre il 40 per cento ha votato No. Il colpo sarebbe duro anche per un leader in ottima salute politica. Quella di Salvini è pessima. Da anni infila un errore dopo l'altro come in una specie di gioco al massacro contro se stesso e si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, di trappole che il Capitano costruisce da solo per poi caderci dentro: come il pasticcio del viaggio in Russia che forse mina la credibilità del leghista per la goffaggine e la superficialità approssimativa ancor più che per i sospetti di "intelligenza col nemico". Molti, dopo una simile serie di autogol, si aspettano una rivolta interna che scalzi il capo dalla postazione di comando. Tutto può essere, ma probabilmente gli speranzosi saranno delusi. La Lega, oggi, non è semplicemente in grado di sostituire il suo frontman. In termini di voti pagherebbe un prezzo salatissimo, più esoso di quel che costerebbe degradare pubblicamente il Capitano. Ma sulla bilancia dei rapporti di forza interni alla maggioranza la mazzata si farà sentire eccome, tanto più se, a spoglio concluso, sarà confermata la sensazione di un testa a testa con FdI nel nord. Negli equilibri interni al Carroccio, se Salvini rimarrà alla guida, la partita si profila invece come più complessa ed esposta a esiti opposti. Il legista ha salvato la Lega da una scomparsa che pareva inevitabile grazie alla sua retorica demagogica e comiziante. Sceso dai palchi, però, il ruggente Matteo non è mai stato in grado di seguire una rotta con la determinazione promessa con i ruggiti da comizio. È stato titubante e incerto al momento di far cadere il governo giallorosso, al punto che molti tra i suoi stessi elettori hanno trovato la mossa se non inspiegabile almeno inspiegata. Ha flirtato con i No Green Pass salvo poi accettare e votare tutte le misure contro cui tuonava. Si è imbarcato nell'impresa politica più difficile che ci sia, quella del "partito di lotta e di governo", col risultato di deludere e scontentare tutti, i lottatori quanto i governisti. Sulla guerra, oscilla tra conati di critica al governo e rapidissimi ritorni all'ovile. I governisti gli rimprovereranno le fughe in avanti, i "salviniani" stessi le rapide retromarce. Salvini stesso potrebbe capire di doversi decidere a prendere una posizione chiara e chiaramente riconoscibile scegliendo tra le due anime del suo partito. Se invece, come è di gran lunga più probabile, resterà in sospeso, cercando di raccogliere consensi da tutte le parti e perdendoli da ognuna, il verdetto delle prossime elezioni politiche rischia di essere spietato e, quello sì, tombale per la sua leadership.