La campagna referendaria sui temi della giustizia volge al termine. Adesso la parola passa ai cittadini, o, più precisamente ai cittadini che sono stati messi a conoscenza del fatto che il 12 giugno si voterà per un referendum. La precisazione, come si dice, è d’obbligo, perché se vi è un fatto conclamato e inoppugnabile, certificato qualche giorno fa dalla stessa Autorità per le comunicazioni, è che di questo referendum si è parlato poco o nulla sui mezzi di informazione e in particolare sui mezzi del servizio pubblico. Si è parlato poco del fatto (meno dell’1 per cento dei tempi dedicati a informazione e approfondimento) e si parlato ancora meno del merito. Prepariamoci dunque ad aggiungere all’astensionismo strutturale (oggi in Italia almeno il 30 % degli elettori non vota per alcun tipo di elezione, compresa quella per il Parlamento della Repubblica, a prescindere dunque dal merito) l’astensionismo per disinformazione o per mancata informazione. Ciò detto, la compagna referendaria, quando c’è stata (cioè pochissimo), ha comunque consentito un confronto serrato tra le opinioni. E questo rende ancor più forte il rammarico per il fatto che si sarebbe potuto e dovuto far di più. Nell’interesse di tutti. A proposito del merito, un atteggiamento laico impone certamente di considerare con attenzione gli argomenti pro e contra. I riflettori (o, meglio, è il caso di dire, le abat-jour) quando sono stati accesi, soprattutto da alcuni giornali, tra cui questo, hanno mostrato quanto importanti siano i temi di cui si discute e quale sia il livello dello scontro tra i diversi fronti. Purtroppo non sempre la discussione è stata intellettualmente onesta. Molte fake news sono state propalate additando scenari apocalittici e inquietanti su cosa succederebbe se i referendum fossero approvati. Sono fatti gravi, anche gravissimi, soprattutto quando provengono da funzionari pubblici nell’esercizio o a margine dell’esercizio delle proprie funzioni. C’è una vicenda particolarmente preoccupante che riguarda direttamente questo giornale, che il 1° giugno scorso ha ripubblicato gli estratti di un intervento di Giovanni Falcone, edito nel volume “La posta in gioco, interventi e proposte per la lotta alla mafia” (Rizzoli, 2010). In quell’intervento il magistrato, del cui assassinio ricorre proprio quest’anno il trentennale, formulava l’opinione dell’opportunità della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Opinione confermata il 3 ottobre 1991 in un’intervista a Mario Pirani su Repubblica e anche in interventi pubblici. Separazione (delle funzioni) che è oggetto anche di uno dei quesiti referendari. Un’opinione argomentata nello stile di Falcone, in modo chiaro, ma senza alcuna venatura ideologica. Falcone in quell’intervista, peraltro, utilizzava argomenti simili a quelli emersi nel dibattito in Assemblea costituente, nel quale si escluse la netta separazione in considerazione del modello processuale allora vigente, in cui il Pubblico ministero era titolare anche di funzioni giudicanti (in qualità di giudice istruttore). Con altrettanta nettezza i costituenti erano consapevoli che l’eventuale superamento di quel modello verso un processo di tipo accusatorio (in cui cioè le prove non si formano prima, ma si formano nel dibattimento) avrebbe richiesto una modifica dell’impianto organizzativo della magistratura. E ciò in conseguenza del diverso ruolo (solo di parte pubblica e non più giudicante) che il Pm avrebbe svolto in quel processo. Un parte e non un giudice. Le argomentazioni di Falcone, che parlava dopo l’approvazione del nuovo codice di procedura penale che aveva introdotto il processo accusatorio (trenta anni fa), andavano sostanzialmente nella medesima direzione. In un’altra dichiarazione Falcone criticava la definizione del Pm come “parte imparziale”, cara a una certa cultura giudiziaria, aggiungendo, con logica ineccepibile: “Come si fa ad essere parte e a essere imparziale allo stesso tempo, vorrei che qualcuno me lo spiegasse”. Si tratta ovviamente di opinioni, anche se provengono da un servitore dello Stato scomparso così tragicamente. In una visione laica, che resiste alla tentazione del culto acritico della personalità, anche quando si tratti di persone straordinarie come Falcone, queste opinioni possono ovviamente essere contestate nel merito. Con grande onestà intellettuale Giancarlo Caselli, personalmente contrario alla separazione, intervistato dal direttore de Il Dubbio, ha riconosciuto che quella, invece, fosse l’opinione di Falcone, aggiungendo che nessuno può dire se, alla luce degli sviluppi degli anni successivi, tale opinione sarebbe mutata oppure no (ma propendendo per l’idea che probabilmente non sarebbe mutata, e Falcone “oggi, scriverebbe le stesse cose”). Ciò che invece è inaccettabile, e dovrebbe far riflettere, è l’atteggiamento di chi semplicemente nega che Falcone abbia sostenuto questa posizione, temendo probabilmente che ciò possa incrinare la tesi secondo cui il referendum sarebbe una crociata contro la magistratura, compatta e granitica su tutte le questioni che la riguardano. Quando un ex magistrato come il Dottor Spataro, sulle pagine di un importante quotidiano nazionale, sostiene semplicemente e apoditticamente che “non è vero” che Falcone sostenesse quelle opinioni, non si rende un buon servizio né alla verità, né alla propria causa. Negare semplicemente un fatto (nemmeno problematizzarlo, ma semplicemente negarlo!) senza, è il caso di dire, alcuna articolazione “probatoria” delle proprie affermazioni, di fronte a testi e dichiarazioni che si possono facilmente reperire in libreria o sulla rete, esprime un atteggiamento che non solo non aiuta il confronto, ma è lontano anni luce da quell’approccio laico ai problemi così delicati della giustizia in Italia. Nessuno può dire cosa avrebbe pensato oggi Giovanni Falcone, ma è certo che sul piano del metodo e dell’approccio non si sarebbe mai accontentato di un “non è vero”. La verità, nella vita, come nei processi, merita di più.