L’idea è semplice ma a modo suo potenzialmente efficace, le possibilità di tradurla in pratica però scarseggiano. L' "area Draghi" è la carta sulla quale punta Matteo Renzi forse il politico nella posizione più anomala che sia al mondo e certamente in Italia. In questa legislatura ha fatto il bello e il cattivo tempo. Ha condizionato a fondo le scelte di Zingaretti subito dopo le elezioni del 2018, ha tenuto a battesimo la maggioranza giallorossa che ha sostituito quella tra Lega e M5S l'anno seguente. Ha messo al tappeto il governo che aveva fatto nascere e ha guidato la manovra che ha portato a palazzo Chigi Draghi. E' stato il leader politico più influente della legislatura e tuttavia, quando si arriva alla resa dei conti sul tavolo del consenso si rivela pressoché inesistente. Se in campo c'è lui in prima persona il disastro elettorale è assicurato.

Dunque Renzi non può essere il leader di una coalizione di centro e Mario Draghi, che sarebbe invece perfetto almeno sulla carta, non è Mario Monti. Non ha nessunissima intenzione di trasformarsi in politico, di fondare, guidare o anche solo benedire nessun partito. Gioca su un'altra e ben più importante scacchiera e sa bene quanto sarebbe facile bruciarsi se si prestasse al gioco dei partiti. Nulla vieta però che venga usato come bandiera, come programma e come progetto per la legislatura a venire. Se dalle urne del 2023 non uscirà un risultato chiaro, o se quel risultato non reggerà allo stress test della formazione di un governo e di una maggioranza, la sua candidatura alla successione di se stesso è nell'ordine delle cose.

Renzi però non si limita a esplicitare uno schema di gioco che era comunque presente. Propone alla galassia frammentata e divisa dei centristi di ogni provenienza di coagularsi per spingere attivamente gli equilibri in quella direzione. Se gli elettori si trovassero di fronte una coalizione centrista cementata proprio dalla conclamata intenzione di lavorare per impedire il trasloco di Draghi e se le tributassero un risultato confortante, certo non proporzionale ma comunque tra l' 8 e il 10%, la strada per confermare Draghi sarebbe molto più sgombra e forse spianata. Anche perché quella truppa potrebbe contare sul sostegno di aree rilevanti di Fi, della Lega e, sempre che non si scinda prima come è probabile, anche del M5S. Come in una storia di fate, il solo nome dovrebbe sciogliere una parte dei nodi che strangolano puntualmente in culla le velleità centriste. Più che di partiti si tratta infatti di piccoli eserciti di ventura che rispondono al capo e quando i capi sono tanti, ciascuno con la sua coorte personale di fedelissimi, la sindrome dei troppi galli nel pollaio è assicurata.

Trasformare un Draghi inconsapevole e probabilmente per nulla contento della manovra nel leader di riferimento è forse la sola via che permetta di uscire dalla tagliola dei personalismi che altrimenti vanificherà ogni ambizione centrista. Una serie di problemi, dall'obbligo di concordare un programma comune, impresa tutt'altro che facile, a quello di indicare un premier, sarebbero cancellati grazie alla spugna col nome "Draghi" inciso sopra.

Le controindicazioni sono però molte e quasi proibitive. La prima è lo stesso Draghi, che potrebbe chiedere di non essere coinvolto in una manovra che di fatto lo strumentalizza. La seconda è lo scetticismo, ai limiti dell'aperta ostilità di Calenda. La sua è una posizione diversa da quella del rivale toscano. Nei sondaggi è in ascesa, non vertiginosa ma significativa. Mira a dar vita a una vera formazione ambiziosa sotto la sua leadership e dunque non ha molto piacere nel confondersi in un pulviscolo di partitini in grado sì di impugnare il vessillo di Draghi ma non di fare altro e dunque non di proporsi come vero polo politico, in grado di crescere nel prossimo quinquennio.

La trovata di Renzi dunque difficilmente sbloccherà una situazione che ha aspetti ormai paradossali. Se si sommano le piccole forze politiche in questione alle aree dissidenti interne agli altri partiti, ai governisti di Fi, della Lega e dei 5S, alla variegata compagnia di Carfagna, Gelmini, Giorgetti, Brunetta, Di Maio, si ottiene una forza politica virtuale in grado davvero di giocare una parte da protagonista nella politica della prossima legislatura. O meglio la si otterrebbe se i piccoli leader in questione fossero in grado di sacrificare la loro centralità assoluta per costruire quella forza politica. Senza nascondersi dietro il nome di Draghi.