Partito democratico, Movimento 5 Stelle e galassia centrista, dalla federazione di Azione e + Europa fino a Italia viva, hanno tre posizioni differenti sui referendum di domenica sulla giustizia. Si voterà dalle 7 alle 23 su cinque quesiti e in questi giorni i partiti stanno cercando di farsi sentire dopo un silenzio durato mesi. Il Movimento 5 Stelle è compattamente per il No, i centristi sono per il Sì, il Pd per il Nì. Ma andiamo con ordine.

La compagine guidata da Giuseppe Conte è il partito più apertamente schierato per votare No a tutti e cinque i quesiti. Da quello che intende abrogare la legge Severino fino a quello per limitare l’abuso della custodia cautelare in carcere, passando per quello sul sistema di elezione del Csm fino a quelli sulla composizione dei Consigli giudiziari e sulla separazione delle carriere tra giudici e pm. «I quesiti referendari offrono una visione parziale e sicuramente non idonea a migliorare il servizio della giustizia e a renderlo più efficiente ed equo», è il mantra ripetuto dall’ex presidente del Consiglio e leader pentastellato da quando la Corte costituzionale ha dato il via libera ai quesiti, bocciando tuttavia quello sulla responsabilità civile dei magistrati.

E più si avvicina il giorno del voto, più Conte spinge sull’acceleratore, tanto che pochi giorni fa ha definito i referendum, «così come sono concepiti», come «frammenti normativi che intervengono quasi come una vendetta della politica nei confronti della magistratura». Per poi articolare il discorso e colpire ancora di più il bersaglio. «La magistratura ha delle colpe, tra cui la deriva correntizia - ha insistito Conte - Ma da qui ad assumere, da parte della politica, un atteggiamento punitivo, ne corre: ecco perché noi siamo assolutamente contrari e continueremo a lavorare per progetti di riforma organici e sistematici».

Concetto ribadito anche da Mario Perantoni, presidente pentastellato della commissione Giustizia alla Camera. «Il nostro contributo leale e responsabile nei confronti della riforma della giustizia, per renderla più efficiente, sottrarla al correntismo e per rafforzare una indipendenza al servizio dei cittadini, è agli atti dei lavori parlamentari - ha scandito l’esponente grillino - Per noi è quella la sede per una riforma della giustizia che va assolutamente sottratta a strumentalizzazioni: ci preoccupano i cambiamenti che in realtà mascherano una volontà di spuntare le unghie a una magistratura indipendente e garante della legalità».

Di parere opposto la galassia centrista, con i leader di Italia viva e Azione, Matteo Renzi e Carlo Calenda, in prima fila per sostenere i cinque sì. «Credo che sarà molto difficile raggiungere il quorum anche perché hanno tolto dal campo tutti gli argomenti che potevano portare la gente a votare, soprattutto cannabis ed eutanasia - ha detto ieri l’ex presidente del Consiglio - ma io andrò a votare e voterà cinque sì». Anche perché il senatore di Rignano sull’Arno sia eretto ormai a paladino della trentennale battaglia tra politica e magistratura, ereditando la prima linea che per anni fu appannaggio di Silvio Berlusconi e che ora lo vede protagonista dopo le vicende del caso Open e i suoi strascichi. Sulla stessa lunghezza d’onda si muove anche Carlo Calenda, secondo il quale «è fondamentale andare a votare sì perché è arrivato il momento di lavorare per avere una giustizia autenticamente liberale». Per poi aggiungere che «correnti e cordate non possono più farla da padrona».

Convintamente a favore del sì e polemica con il Pd è Emma Bonino, di + Europa, che di referendum se ne intende. «Dalla giustizia dipendono i nostri diritti e la nostra economia, la giustizia giusta è alla base del patto tra Stato e cittadino ed è la garanzia della nostra libertà - ha spiegato la senatrice - Ecco perché + Europa è schierata in maniera convinta per il Sì: ritengo che il Pd stia commettendo un grave errore schierandosi per il No e anche da questo si vede come l’alleanza con il M5S lo stia danneggiando il Pd, riportandolo alle posizioni giustizialiste della riforma Bonafede».

Il riferimento è alla linea del Partito democratico, prima nettamente a favore di cinque No, poi apertasi alla libertà di coscienza. «Il Partito democratico non è una caserma e men che meno su questi temi - ha detto durante l’ultima direzione il segretario del Nazareno, Enrico Letta - C’è la libertà dei singoli, essa rimane a maggior ragione per una materia come questa, così complessa, rispetto a quesiti molto diversi tra di loro». Ma Letta ha anche precisato, e ribadito in seguito, che «una vittoria dei sì in questi referendum aprirebbe più problemi di quanti ne risolverebbe».

Un refrain ripetuto anche dai colonnelli del partito, a partire dalle due capigruppo di Camera e Senato, Deborah Serracchiani e Simona Malpezzi, e dalla segreteria tutta. Ma alle aperture nei confronti di chi la pensa diversamente Letta è stato costretto dopo che, nelle ultime settimane, i pareri contrari alla linea del partito e dunque a favore di alcuni sì o anche di tutti sono via via aumentati, coinvolgendo importanti sindaci dem e parlamentari di spicco. In prima linea per l’abolizione della legge Severino ci sono pezzi da novanta degli enti locali, dal primo cittadino di Bergamo, Giorgio Gori, a quello di Pesaro, Matteo Ricci. A favore di tre sì (separazione delle funzioni dei magistrati, valutazione no autoreferenziale degli stessi e sistema elettorale del Csm) sono, ad esempio, anche Stefano Ceccanti ed Enrico Morando, secondo i quali un voto favorevole a questi tre quesiti «aiuterebbe il percorso di riforma» già avviato dalla Guardasigilli Marta Cartabia.

Nel partito c’è anche chi ha invitato gli elettori ad andare al mare, ritornello craxiano che torna sempre di moda quando ci si avvicina a un referendum. Essendo abrogativo, per essere valido dovrà infatti raggiungere il 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto, risultato che sembra difficile. E se dal centro si denuncia la poca pubblicità data al voto, da un lato, e la complessità tecnica dei quesiti, dall’altro, dalle parti del Nazareno in più d’uno sperano in fondo che la maggioranza degli italiani preferisca l’ennesima giornata di mare sotto il sole torrido di giugno piuttosto che la calura delle urne. Che poi l’una non esclude l’altra, ma a nessuno sembra interessare più di tanto.