C’era un tempo in cui Enrico Letta invocava esperimenti di democrazia deliberativa, con l’estrazione a sorte dei cittadini chiamati a votare. Adesso dice no al referendum sulla giustizia, perché «riforme così complesse vanno fatte in Parlamento». Gli fa eco uno stuolo di politici e intellettuali che mettono la democrazia diretta al bando, come una scorciatoia inadeguata a regolare, per esempio, l’uso o l’abuso della custodia cautelare. A costoro vorrei chiedere se esista una materia dove sia meglio legiferare con il referendum. Personalmente non la conosco. Forse che una migliore disciplina sull’eutanasia possa venire da un referendum? Chiunque abbia costruito la sua vita sullo studio e chiunque, come noi, abbia una predilezione per la democrazia indiretta, non può preferire la legge della piazza alla legge dei competenti. Il referendum è una garanzia per il cittadino, ma non è certamente lo strumento migliore per legiferare. La questione, però, mi pare un’altra: in che modo ha legiferato o piuttosto non ha legiferato il Parlamento. E in che modo le sue leggi sono state interpretate. Siamo o non siamo il Paese dove la giustizia cautelare svolge una surroga del lento rito ordinario, rispondendo, di fronte all’incertezza sull’an e sul quantum, della pena, ai bisogni emotivi di punizione della società? Consideriamo questo slittamento una compensazione provvidenziale o piuttosto una deriva illiberale? Una democrazia dove l’afflittività preceda la condanna, propriamente motivata, è ancora una democrazia? Credo che dobbiamo collegare questa riflessione a quella che abitualmente facciamo nel sostenere una giusta espansione dei diritti civili, che negli ultimi decenni si sono imposti alla consapevolezza pubblica. Non sono i diritti civili diritti di libertà? E non è il percorso che ha portato le società democratiche a riconoscerli e a tutelarli tutt’uno con la piena affermazione del diritto alla presunzione di innocenza? La libertà civile non nasce forse, nello spazio pubblico, da una presunzione di innocenza? Non a caso chi discrimina i gay o gli stranieri attribuisce indirettamente loro una sorta di supposta colpa d’autore, cioè una colpa fondata sul loro modo stesso di essere. Il percorso, lungo secoli, che va dal suddito al cittadino, iniziato con la Magna Carta, si compie attraverso una sempre maggiore affermazione del principio di presunzione di innocenza. Questo principio, che tutela la libertà degli individui dal potere autoritativo del re, è la matrice di tutte le altre libertà che il cammino della democrazia è andato costruendo. Senza innocenza, ab origine non si può concepire la tutela della vita e dell’integrità personale, l’uguaglianza di fronte alla legge, il diritto all’onore, alla riservatezza, alla libertà di espressione e di associazione, e, da ultimo, molto attuale di questi tempi, alla resistenza contro un’oppressione. È vero che questi diritti oggi sono riconosciuti, ancorché talvolta in forma attenuata, anche a chi è giudicato colpevole. Ma continuano a risultare logicamente incoerenti se non si collegano storicamente a una presunzione di innocenza. A conferma del rango primario di questo principio, per condannare occorre una prova al di là di ogni ragionevole dubbio, mentre per assolvere è sufficiente il solo dubbio sulla colpevolezza. Senonché per uno strano fenomeno di corporativizzazione dei diritti, il diritto matrice negli ultimi due o tre decenni non è cresciuto nelle democrazie liberali allo stesso modo dei diritti derivati. Perché, soprattutto in Italia, risulta intollerabile la discriminazione nei confronti delle libertà civili e si accetta invece che si comprima, fino a sovvertirla, la presunzione di innocenza? Che altro è l’arresto preventivo, se non esercizio di potere autoritativo, di pregiudizio, di sospetto, esattamente come la maggior parte delle discriminazioni di classe e di genere contro cui si leverebbe prontamente la coscienza pubblica? Il requisito del pericolo di recidiva, che il referendum si propone di abolire, è l’emblema di questo pregiudizio. Ti arresto per evitare che tu ripeta il reato. Vuol dire implicitamente dare per acquisito che tu il reato lo abbia commesso. Ma poiché non c’è prova di questo, vuol dire fondare una compressione della tua libertà, che è già una pena, sul mio sospetto. Mi si obietta che i gravi indizi di colpevolezza non sono propriamente un sospetto, ma piuttosto una verità relativa e parziale su cui poggia la giustizia fallibile degli uomini. Che si concreta in una valutazione razionale e motivata di un’alta probabilità di condanna. Ma un sistema penale dove in primo grado quasi un imputato su due viene assolto non la smentisce nella prassi? E se nei quattro anni, che in media intercorrono tra l’apertura delle indagini e il verdetto di assoluzione, all’imputato può accadere di finire agli arresti in una percentuale di casi abnorme rispetto al resto delle democrazie liberali, non sarà che l’azione penale ha ribaltato la presunzione di innocenza nel suo contrario? Cioè in un regime del sospetto in cui tutti siamo presunti colpevoli, e da cui ci può sottrarre solo il processo, non più rimedio eccezionale, ma regola ordinaria. Mi si obietta altresì che l’adozione delle misure cautelari è assistita da un presupposto garantista: il pericolo di recidiva deve essere attuale e concreto. Va desunto da specifiche modalità e circostanze del fatto e dalla personalità dell’imputato, quale emerge da comportamenti e atti sintomatici e dai suoi precedenti penali. Senonché chiunque si occupi di cronaca giudiziaria sa che la condizione dell’attualità è costantemente elusa. In non pochi tribunali le richieste di custodia cautelare sono rimaste anche per uno o due anni sul tavolo del gip, che poi ha disposto il carcere o i domiciliari, assumendo l’attualità del pericolo ora per allora. Quanto al presupposto della concretezza, è spesso interpretato individuando i fattori sintomatici del rischio di ripetizione del reato non nelle condotte degli indagati, ma nella loro qualità o nel loro status professionale. Sospetto che tu abbia commesso la corruzione in qualità di sindaco, quindi ti arresto perché, continuando a fare il sindaco, potresti ripeterla. Qualcuno potrebbe negare che sia questo il ragionamento tipico del pm italiano? La recidiva opera come l’irredimibilità del male, riflessa nel sospetto. Non a caso, nell’ultimo decennio i cittadini in carcere in attesa di giudizio sono stati costantemente il 35 per cento dei detenuti, rispetto a una media europea del 22 per cento. Se pure nel biennio della pandemia la percentuale è scesa al 31, ci sono 12mila 583 persone, tante quanti gli abitanti di Isernia, che negli ultimi tre anni sono state assolte o prosciolte dopo essere finite in cella da innocenti. Sono una massa assai più cospicua di quei mille detenuti all’anno risarciti dallo Stato per ingiusta detenzione con 37 milioni di euro, otto dei quali pagati nel distretto della Corte d’Appello di Reggio Calabria. Nello stesso periodo si contano appena 64 procedimenti disciplinari a carico dei magistrati per abuso della custodia cautelare, e solo quattro censure. Disporre delle manette senza giudicato vuol dire preservare una enorme concentrazione di potere, a cui una parte della magistratura non intende rinunciare. Perché la carcerazione preventiva commina una condanna anticipata, pronunciabile in base a un paradigma moralistico che suona più o meno così: siccome i corrotti la fanno franca, gliela facciamo pagare subito. Qui si realizza una singolare sottrazione di potere da parte della magistratura inquirente, e del gip che in troppi casi ne rappresenta la protesi, a danno di quella giudicante: il carcere immediato riporta l’indagine preliminare al centro dell’accertamento penale, svalutando il processo che, quando si farà, avrà esaurito in partenza la sua funzione. Quanto strenua sia questa trincea lo si coglie dagli allarmi-fake che il marketing antireferendario lancia nella pubblica opinione. Come quello secondo cui, votando sì, s’impedirebbe l’uso delle misure cautelari nei confronti dei protagonisti di violenze domestiche e dei potenziali autori di femminicidi. Falsità sesquipedale, perché il quesito referendario non interviene sui reati di violenza e, tra questi, la Cassazione arriva a includere perfino l’abuso dei mezzi di correzione. Disporre delle manette senza giudicato, ed abusarne, vuol dire avvicinare la democrazia ai regimi. Contro questo rischio il 12 giugno non c’è altra scelta che un Sì convinto. Contrariamente a quanto pensino Letta e i suoi alleati, stavolta il voto ignorante dei cittadini vale assai di più dell’inerzia sapiente del Parlamento.