Sono molti gli argomenti utilizzati in questi giorni per spingere i cittadini a disertare l'appuntamento referendario del 12 giugno sulla “giustizia giusta”, promosso da Lega e Partito radicale, o per votare No ai cinque quesiti. Vediamone alcuni e cerchiamo di capire se sono validi.

Primo

Il Partito democratico continua a ripetere che «questi quesiti non hanno nulla a che fare con la riforma». E invece proprio tre di loro si intrecciano perfettamente con la riforma di mediazione Cartabia ora in discussione al Senato. E sono quelli su: diritto di voto di avvocati e professori nei Consigli giudiziari, separazione delle funzioni, elezioni del Csm.

Secondo

A parere di molti commentatori il Sì al quesito sull'abuso delle misure cautelari renderebbe difficile tutelare le vittime di violenza di genere, lasciando escluse dalla applicazione delle misure cautelari tutte quelle violenze di genere che vengono commesse in altro modo (dalla violenza fisica ndr) e che sono anche la maggior parte: le violenze psicologiche o economiche, i maltrattamenti in famiglia con minacce o gli atti persecutori come lo stalking. Come ha risposto su questo giornale qualche giorno fa l'avvocato Simona Viola, responsabile giustizia di +Europa, l'eventuale norma residuale non cancellerebbe la parte in cui la legge dice che le misure cautelari sarebbero previste se «sussiste il concreto e attuale pericolo che questi (indagato o imputato, ndr) commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale». L’ordinamento e la giurisprudenza «impongono già - ha scritto Viola - di estendere la misura anche a chi si teme non già che faccia uso di violenza fisica in senso stretto nei confronti delle donne, ma che possa usare altri mezzi di coartazione. Se nei confronti di una donna è stata usata violenza – e anche la violenza psicologica e i maltrattamenti sono violenza – la custodia cautelare continua ad essere applicabile». «Non c'è bisogno di alzare le mani perché ci sia violenza», ha ribadito l'avvocato in un dibattito organizzato da Base Italia, proprio sui referendum.

Terzo

Sempre sul quesito delle misure cautelari Giorgia Meloni ha detto che la sua approvazione impedirebbe di arrestare spacciatori e delinquenti comuni che vivono dei proventi del loro crimine. Come ha risposto il professor Giovanni Guzzetta dalle pagine di Libero «simili restrizioni non sparirebbero. Perché rimarrebbe sempre la misura cautelare nei casi in cui vi è un collegamento con organizzazioni di tipo criminale. E nella stragrande maggioranza dei casi lo spacciatore fa parte di un'organizzazione criminale. Per i pochi casi in cui questo non succede (il ragazzo che cede la droga a un amico, ad esempio), già oggi la prassi ci dice che la carcerazione non è applicata. Dunque, rispetto alle preoccupazioni della Meloni, il referendum è assolutamente ininfluente».

Quarto

L'obiezione che viene mossa al quesito che abrogherebbe il decreto Severino è che, come detto da alcuni partiti e Procuratori, «verrebbe meno una serie di norme adottate anche durante le stragi mafiose. Come quella di far decadere personaggi condannati per 416 bis sia pure in primo grado». Come ci spiega il professor Bartolomeo Romano, Ordinario di Diritto penale nell'Università di Palermo, e vice presidente dell'Associazione 'Sì per la libertà, sì per la giustizia”, «non si trovano decisioni nelle quali un giudice, nel caso di una condanna per associazione per delinquere di stampo mafioso, non applichi la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. Esiste una generalizzata applicazione della pena accessoria nei casi di 416-bis, ovviamente legata alla gravità del reato e alla prognosi che il condannato possa commettere in futuro ulteriori reati. Il problema quindi non esiste alla radice. Teniamo anche presente che la Consulta recentemente, su molti argomenti, ha dichiarato l'incostituzionalità degli automatismi in malam partem. Non solo, consideriamo anche che l'articolo 27 della Costituzione impone una personalizzazione della responsabilità penale, il che significa che l'automatismo generalizzato certamente confligge con la commisurazione in concreto della pena e delle conseguenze accessorie. Se così non fosse, non avremmo circa il 95% di pene discrezionali - capaci cioè di rispondere al principio di personalità della responsabilità penale - e non fisse».

Quinto

Riguardo al quesito sulla separazione delle funzioni tra magistratura requirente e giudicante si sostiene che la separazione disancora i pubblici ministeri dalla cultura della giurisdizione, li rende sostanzialmente dei poliziotti e dunque di fatto li riconduce nella sfera di influenza del potere esecutivo che è quello che si occupa della politica criminale. Non è così perché come ha spiegato sempre su questo giornale il professor Guzzetta «la Costituzione italiana impone alla legge di garantire, comunque, l’indipendenza del pubblico ministero (art. 108), affida a questo (e non all’esecutivo) la disponibilità diretta della polizia giudiziaria (art. 109) e prescrive l’obbligatorietà dell’azione penale ( rt. 112)».

Sesto

Sul voto degli avvocati e dei professori nei Consigli giudiziari al momento della valutazione di professionalità dei magistrati, si partecipa l'idea che coinvolgere esterni alla magistratura potrebbe inficiare l’indipendenza di questa, lasciandola alla mercé di conflitti di interessi di legali e non togati. Come ci ha spiegato l'ex magistrato Paolo Borgna, favorevole al Sì, «sarebbe sufficiente rispondere che gli avvocati nei consigli giudiziari sono, comunque, una minoranza. E dunque, se uno di loro portasse in quel consesso un atteggiamento di inimicizia verso un singolo magistrato, sarebbe facilmente battuto». E poi, si è chiesto Borgna, «perché i magistrati hanno paura dell’influenza del “grande avvocato”, che si potrebbe far portatore di interessi della sua potente committenza, e non invece del leader di una corrente della magistratura, che in concreto ha molta più possibilità di influenzare il consiglio superiore o il consiglio giudiziario?».