Ha aspettato che Rafael Nadal vincesse il suo quattordicesimo Roland Garros per andarsene in silenzio, senza disturbare, leggero come una spruzzata di panna sopra le fragole di Wimbledon. Gianni Clerici è morto a 91 anni, dopo una vita passata con la racchetta in mano, prima, e la penna tra le dita, poi. Tennista, divulgatore, giornalista, autodefinitosi scriba e non scrittore come «un modo, un tentativo, per sfuggire alle categorizzazioni». Autore del monumentale (e immancabile in qualsivoglia libreria che possa dirsi tale) 500 anni di tennis, definito da Enzo Biagi «il libro italiano più conosciuto all’estero dopo la Divina Commedia e Pinocchio». Ma Gianni Clerici è stato molto di più. Ho imparato ad amare questo sport ascoltando estasiato, per ore e ore, le sue telecronache al fianco di Rino Tommasi, rimasto adesso senza la sua seconda voce. In pieno luglio, nel bel mezzo di pomeriggi perfetti per quattro calci a un pallone, fuggivo gli inviti degli amici con una scusa che in pochi capivano: «c’è Wimbledon». Che tradotto significava spesso «c’è la telecronaca di Tommasi e Clerici». Inesauribile dispensatore di numeri e curiosità, il primo; leggendario donatore di parole, il secondo. Tanto da essere soprannominato “Dottor Divago”. Sì, perché in fondo la massima capacità di Gianni Clerici è stata questa, in tv come nei libri: donare al telespettatore, come al lettore, parole che nessun altro avrebbe saputo trovare. Aveva quel modo tutto suo di soprannominare i giocatori e le giocatrici, il più celebre “la Venere Nera” in riferimento a Venus Williams, capace di vincere cinque volte in singolare a Wimbledon e altre sei volte sui campi di Church Road assieme alla sorella Serena. Di Venus, Clerici era follemente innamorato, e non ha mai pensato di nasconderlo. «Sarà perché ho avuto tante ragazze di colore - diceva - Tra i miei amici c’è chi considera la mia una forma involontaria di razzismo, ma è forse vero il contrario». Era innamorato del bel gioco almeno tanto quanto si dispiaceva per un colpo mal giocato, con quei commenti del tipo «ma ragazzo mio, cosa mi combini…» che sapevano più di rimproveri affettuosi di un padre affranto piuttosto che di disprezzo vero e proprio. Guai, poi, a dirgli che Roger Federer sia il più grande giocatore della storia. Non ne negava il talento smisurato, sia mai, ma con quel fare un po’ nobiliare e ironico rispondeva che «signori miei, ho scritto un libro che racconta cinque secoli di tennis, figuriamoci se in un periodo così esteso si possa dire che ci sia stato qualcuno più grande di qualcun altro». Non mancavano gli aneddoti, nelle sue telecronache più gustose, come quando raccontò di essersi messo sulle tracce di Suzanne Lenglen, unica giocatrice a non aver mai perso un match in carriera, se non per ritiro. Lei sì definita dal Nostro la più forte tennista di sempre. «Un giorno mi ritrovai nella casa di Marguerite Broquedis, la campionessa che aveva preceduto Suzanne, ed ebbi la viva sorpresa di scorgere nel mezzo del tavolo il mio 500 anni di tennis - ha scritto nella sua autobiografia, intitolata Quello del tennis - Marguerite, che mi aveva ricevuto con un minimo di supponenza, a un mio accenno si affrettò a dirmi: “quello è l’unico giornalista al quale sarei onorata di concedere un’intervista”. Tolsi la stilografica dal taschino, aprii il libro e mentre, allarmata, la povera signora si domandava se fossi matto, firmai un rapido autografo che mi affrettai a mostrarle. Finì addirittura con un abbraccio». Game, set & match.