Un estratto dal libro “Il lavoro che ci salverà. Cura, innovazione e riscatto: una visione prospettica”. Di Marco Bentivogli, San Paolo Edizioni, 2021  *** Sappiamo che il lavoro ha cominciato a perdere la sua connotazione di “schiavitù” quando si sono fatte, all’inizio del secolo scorso, le prime fondamentali riforme centrate sul principio per cui per il lavoratore deve esistere un tempo di lavoro e un tempo di riposo, in modo che egli/ella possa ricaricare le sue energie (lavoro di massimo 8 ore al giorno, riposi settimanali, ferie). Tutto questo ha contribuito a far superare l’idea che il lavoro fosse solo una fonte di privazione (sebbene in alcune parti d’Italia sia ancora diffusa l’espressione “vado a faticare”, anziché “a lavorare”, sottolineando il legame fra lavoro e sforzo; il lavoro che procura stanchezza, spossatezza, calo delle capacità psicofisiche di resistenza). Oggi il lavoro non è solo sforzo fisico o intellettuale: è anche un modo per sviluppare le proprie capacità cognitive, è un modo per crescere come persona, per conoscere sé stessi, per sviluppare i propri punti di forza. Pensiamo, ad esempio, al fatto che nei sistemi di organizzazione del lavoro delle fabbriche intelligenti la fatica è considerata una diseconomia e si lavora su obiettivi di processi produttivi “zero fatica”: una novità che ci fa comprendere come l’umanesimo industriale stia entrando, magari dalla finestra, nelle logiche industriali più diffuse e di successo. Sapete quanti movimenti degli operai sono necessari per assemblare una Panda nella fabbrica FCA di Pomigliano? Sono 54.172. Ogni movimento è stato misurato nella sua durata e nello sforzo fisico che comporta.  
  Anche il più leggero e insignificante, come leggere le informazioni sul foglietto incollato sulla scocca che ne indica la versione e gli optional. Un apposito software ha calcolato che dare quest’occhiata procura “fatica zero” e dura 0,7 secondi. Non un decimo di più, non un decimo di meno. Leggere quel foglio fa parte delle mansioni stampate su un dépliant chiamato “cartellino” che indica al millimetro che cosa deve fare e quanto sforzo sopporta ogni operaio per la sua quota dei 54.172 movimenti. La scelta di contrastare la fatica tramite l’uso scientifico dell’ergonomia fluidifica e rende più produttiva l’opera sincronizzata di oltre mille persone per turno che a Pomigliano garantisce la produzione di una Panda ogni 55 secondi. La misurazione computerizzata di appena 0,7 secondi sembra banale, ma riveste un’enorme importanza. La versione 4.0 della misurazione dei tempi di lavoro, che anni fa era affidata “agli odiati cronometristi”, non rappresenta solo un’innovazione tecnica. In realtà si tratta di una lettera di un alfabeto complesso, condiviso da ingegneri e operai, che compone un linguaggio ponte fra capitale e lavoro. Perché l’ergonomia in fabbrica significa più attenzione alla salute dei lavoratori e al tempo stesso aumento della produttività e della qualità dei prodotti e pertanto costituisce un salto culturale dell’intero mondo della produzione. Anche intorno a un movimento di 0,7 secondi si gioca il passaggio dalla fabbrica-inferno del Novecento alla fabbrica-digitale, quella che – non per concessione paternalista, ma per modello di business – comprime la fatica con l’obiettivo di produrre meglio riducendo i costi, di aumentare il valore aggiunto del lavoro operaio, di consentire la progettazione comune, fra capi e operai, dei processi di lavoro. Quella misurazione, così modesta, è dunque una leva della fabbrica del futuro. Ovvero di un modello di manifattura che solo così può restare competitiva in Occidente, continuando ad assicurare al territorio in cui è dislocata ricchezza fisica e sbocchi professionali sofisticati e soprattutto un bene collettivo prezioso come la coesione sociale. Qualcuno definisce tutto questo «umanesimo industriale». È ovvio che questo modello non è perfetto e mostra molti punti critici, in particolare nelle fabbriche dove è applicato da tempo. La forza del lavoro tra “sussidistan” e società signorile di massa Oggi sono tornate con forza le idee che sostengono la liberazione “dal” lavoro, sorrette da una lettura non corretta della grande trasformazione tecnologica. Si teorizza un futuro in cui, inevitabilmente, non serviranno tante persone che lavorano, per cui, si dice, resterà al lavoro un 10% di iper-professionalizzati contro il 90% di sussidiati. A mio avviso, questa prospettiva è economicamente insostenibile, ma soprattutto è eticamente mostruosa. Avere il 90% dell’umanità in panchina non regge, non ha nessun fondamento ed è un’evoluzione che andrebbe combattuta. La lascerei ai teorici recidivi della “fine del lavoro”, incapaci di capire le grandi trasformazioni e con il gusto (che ha molto successo) del catastrofismo. Continuo a ripetere che bisogna liberarsi “nel” lavoro e non da esso. Con orari, attività, luoghi e comunità che ne accrescano il senso e la dimensione realizzativa. Papa Francesco lo dice senza mezze misure: “Bisogna allora guardare senza paura, ma con responsabilità, alle trasformazioni tecnologiche dell’economia e della vita e non rassegnarsi all’ideologia che sta prendendo piede ovunque, che immagina un mondo dove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il ‘reddito per tutti’, ma il ‘lavoro per tutti’! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso – pensiamo alla rivoluzione industriale, c’è stato un cambio; anche qui ci sarà una rivoluzione – sarà diverso dal lavoro di ieri, ma dovrà essere lavoro, non pensione, non pensionati: lavoro. il nocciolo della domanda è questo: un assegno statale, mensile che ti faccia portare avanti una famiglia non risolve il problema. Il problema va risolto con il lavoro per tutti”54. Questo, naturalmente, non esclude misure di sostegno alla povertà. Due pasti caldi e un tetto per vivere devono essere un diritto per ogni persona. riportare in pista le persone e non considerare nessuno come “scarto” da assistere per sempre, poiché nessuno nasce sotto una cattiva stella e le disuguaglianze di opportunità sono il vero problema. Secondo i dati del fisco italiano (in un paese in cui il lavoro nero e l’evasione fiscale spadroneggiano) è evidente che esiste una quantità di persone che non hanno bisogno di lavorare. Luca Ricolfi ha analizzato bene la peculiarità del caso italiano: una società in cui, nel suo insieme, già dopo la fine del boom (cioè già dal 1964, l’anno della “congiuntura”) ha avuto difficoltà a crescere ai livelli delle altre nazioni sviluppate. La “distruzione della scuola” che si è consumata a partire dagli anni Sessanta ha determinato in molti giovani un fenomeno di disoccupazione volontaria: malgrado il conseguimento di lauree e master, le competenze dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro sono mediamente insufficienti per un’impresa che vorrebbe essere competitiva. Ma le aspettative sono alte, per cui spesso i giovani rifiutano offerte di lavoro reputate non in linea con i titoli acquisiti. La società italiana si regge in piedi grazie alla ricchezza prodotta nel dopoguerra (case e asset finanziari), che si è rivalutata anche grazie all’aumento del debito pubblico, e all’infrastruttura paraschiavistica dei lavoratori immigrati, che si sobbarcano i lavori più umili. Ma è dal 2009 che ha una crescita inferiore all’1% annuo. Risultato: secondo i dati del 2018, il 52,2% dei residenti che hanno più di 14 anni è composto da italiani che non lavorano. Ma solo – relativamente – il 6% degli italiani vive al di sotto della soglia di povertà.