Abbiamo riscoperto il gender gap e che essere donna, madre e lavoratrice in Italia, nel 2022, è un problema. Lo abbiamo riscoperto guardando i dati della disoccupazione femminile (inaccettabili), quelli del divario retributivo fra i sessi (mortificante) e dopo essere stati investiti dalle parole di Elisabetta Franchi: da una madre imprenditrice di successo ci saremmo aspettati la conferma dell’idea che il successo è a portata di donna “nonostante” i figli e il tempo che essi chiedono, che in fin dei conti ricade quasi esclusivamente sulle madri. Invece no, nell’azienda Franchi l’imprenditrice donna di successo e madre ammette di preferire, nelle posizioni di responsabilità, uomini o donne “che hanno già fatto il giro di boa” ovvero hanno figli grandi, perché per adottare scelte organizzative che richiedono importanti investimenti di risorse occorre una affidabilità che le donne, in certi momenti della loro vita, non sono in grado di garantire.
Uscita tanto sgradevole quanto odiosamente onesta, perché, la si condivida o no (personalmente non la condivido), dobbiamo riconoscere che questa è la posizione della maggioranza dei datori di lavoro, piccoli, medi o grandi che siano. Da cosa lo capiamo? Dalle notizie di segno contrario uscite nei giorni successivi: quasi nulle. V’è una impresa a Padova che ha assunto una lavoratrice incinta al termine del contratto di formazione, e vi è l’azienda WearMe composta da sole donne, che ha puntato sul totale adattamento del business e dell’organizzazione all’essere donna così che ogni giorno si chiude alle 16, si vende tutto online e si è dimostrato che il fatturato cresce anche se il tempo del lavoro è diverso da quello ordinario full time.
Ma è troppo poco, una goccia nel mare perché si possa affermare che il trend è diverso e che la realtà è contraria a quel che ha detto la Franchi. La verità, amara e feroce, è che anche se la narrazione prevalente è nel senso di criticare e combattere la differenza di posizione tra uomini e donne nei luoghi di lavoro, di sostenere il diritto delle donne di accedere alle medesime possibilità di carriera e retribuzione, nessuno fra quelli che pubblicamente o privatamente si dichiarano d’accordo, all’atto pratico dà seguito ai buoni propositi assumendo una donna incinta, e quelli che lo fanno sono pochissimi.
Perché qualcosa cambi ed in meglio dobbiamo riconoscere anzitutto che in Italia abbiamo un’impostazione culturale che ci impedisce di ripensare il mondo del lavoro in modo da renderlo adatto alle esigenze di entrambi i sessi, di rispondere alle differenti aspirazioni che la natura di genere richiede, e siccome trattasi di un’impostazione della nostra società che ha un retaggio antico ne consegue che anche la produzione normativa è in linea. Ad oggi questo retaggio fa sì che il tempo delle donne sia vissuto ancora come un limite nelle organizzazioni, e le tutele della maternità (dall’assenza obbligatoria a quella facoltativa ai permessi per l’allattamento ecc.) poco più che costrizioni e non conquiste di civiltà, che colpiscono le aziende e non le sostengono mai, mai a sufficienza.
Non vi è la percezione che gli strumenti normativi esistenti, o altri come le quote rosa nei sistemi di governance, servano quali elementi di crescita ed evoluzione dell’intero sistema, ed è così perché non sono congegnati come tali. Perché la situazione cambi occorre mettere mano al sistema normativo nel suo complesso, ma sulla base di un’idea diversa del ruolo della donna nel nostro sistema e della sua reale centralità, serve maturare a livello culturale l’idea della eguaglianza perché il cambio di ruolo non venga subito ma scelto liberamente, come avviene in altri paesi senza che vi siano temi di “posizione” o “dignità”.
Serve prendere coscienza che fra le tante ragioni di diversità di genere la genitorialità rappresenta essa stessa un lavoro, che deve coesistere con quello retribuito alle dipendenze di un datore ed essere anch’essa remunerata dallo stato in quanto componente essenziale della civiltà nazionale e del suo progresso. (*Avvocato giuslavorista, equity partner LabLaw studio legale)
Quella diffidenza verso le “madri manager” conferma: l’Italia non è un Paese per donne…
Abbiamo riscoperto il gender gap e che essere donna, madre e lavoratrice in Italia, nel 2022, è un problema. Lo abbiamo riscoperto guardando i dati della disoccupazione femminile (inaccettabili), quelli del divario retributivo fra i sessi (mortificante) e dopo essere stati investiti dalle parole di Elisabetta Franchi: da una madre imprenditrice di successo ci saremmo aspettati la conferma dell’idea che il successo è a portata di donna “nonostante” i figli e il tempo che essi chiedono, che in fin dei conti ricade quasi esclusivamente sulle madri. Invece no, nell’azienda Franchi l’imprenditrice donna di successo e madre ammette di preferire, nelle posizioni di responsabilità, uomini o donne “che hanno già fatto il giro di boa” ovvero hanno figli grandi, perché per adottare scelte organizzative che richiedono importanti investimenti di risorse occorre una affidabilità che le donne, in certi momenti della loro vita, non sono in grado di garantire.
Uscita tanto sgradevole quanto odiosamente onesta, perché, la si condivida o no (personalmente non la condivido), dobbiamo riconoscere che questa è la posizione della maggioranza dei datori di lavoro, piccoli, medi o grandi che siano. Da cosa lo capiamo? Dalle notizie di segno contrario uscite nei giorni successivi: quasi nulle. V’è una impresa a Padova che ha assunto una lavoratrice incinta al termine del contratto di formazione, e vi è l’azienda WearMe composta da sole donne, che ha puntato sul totale adattamento del business e dell’organizzazione all’essere donna così che ogni giorno si chiude alle 16, si vende tutto online e si è dimostrato che il fatturato cresce anche se il tempo del lavoro è diverso da quello ordinario full time.
Ma è troppo poco, una goccia nel mare perché si possa affermare che il trend è diverso e che la realtà è contraria a quel che ha detto la Franchi. La verità, amara e feroce, è che anche se la narrazione prevalente è nel senso di criticare e combattere la differenza di posizione tra uomini e donne nei luoghi di lavoro, di sostenere il diritto delle donne di accedere alle medesime possibilità di carriera e retribuzione, nessuno fra quelli che pubblicamente o privatamente si dichiarano d’accordo, all’atto pratico dà seguito ai buoni propositi assumendo una donna incinta, e quelli che lo fanno sono pochissimi.
Perché qualcosa cambi ed in meglio dobbiamo riconoscere anzitutto che in Italia abbiamo un’impostazione culturale che ci impedisce di ripensare il mondo del lavoro in modo da renderlo adatto alle esigenze di entrambi i sessi, di rispondere alle differenti aspirazioni che la natura di genere richiede, e siccome trattasi di un’impostazione della nostra società che ha un retaggio antico ne consegue che anche la produzione normativa è in linea. Ad oggi questo retaggio fa sì che il tempo delle donne sia vissuto ancora come un limite nelle organizzazioni, e le tutele della maternità (dall’assenza obbligatoria a quella facoltativa ai permessi per l’allattamento ecc.) poco più che costrizioni e non conquiste di civiltà, che colpiscono le aziende e non le sostengono mai, mai a sufficienza.
Non vi è la percezione che gli strumenti normativi esistenti, o altri come le quote rosa nei sistemi di governance, servano quali elementi di crescita ed evoluzione dell’intero sistema, ed è così perché non sono congegnati come tali. Perché la situazione cambi occorre mettere mano al sistema normativo nel suo complesso, ma sulla base di un’idea diversa del ruolo della donna nel nostro sistema e della sua reale centralità, serve maturare a livello culturale l’idea della eguaglianza perché il cambio di ruolo non venga subito ma scelto liberamente, come avviene in altri paesi senza che vi siano temi di “posizione” o “dignità”.
Serve prendere coscienza che fra le tante ragioni di diversità di genere la genitorialità rappresenta essa stessa un lavoro, che deve coesistere con quello retribuito alle dipendenze di un datore ed essere anch’essa remunerata dallo stato in quanto componente essenziale della civiltà nazionale e del suo progresso. (*Avvocato giuslavorista, equity partner LabLaw studio legale)
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