Sei anni sulla graticola giudiziaria, poi la fine di un incubo. L’ex sindaco di Rende ed ex sottosegretario Sandro Principe esplode in un pianto liberatorio quando il presidente del collegio giudicante del Tribunale di Cosenza, Stefania Antico, pronuncia la parola assoluzione, per lui e i coimputati Umberto Bernaudo, Pietro Paolo Ruffolo e Giuseppe Gagliardi. Un pianto che significa la fine di un’angoscia profonda, suscitata dall’accusa più infamante per un politico: quella di essere sceso a patti con la 'ndrangheta per determinare le proprie fortune elettorali. Un’accusa che gli era piombata addosso già nel 1992, quando la procura di Palmi chiese alla Camera per due volte - senza successo - l’autorizzazione a procedere, salvo poi chiedere l’archiviazione. E la storia si è ripetuta il 23 marzo 2016, quando la Dda di Catanzaro lo ha costretto a 100 giorni di arresti domiciliari, con l'accusa di corruzione elettorale aggravata e concorso esterno in associazione mafiosa. Ma ora quel castello di accuse è evaporato con la sentenza di mercoledì, dopo la quale Principe sottolinea più volte la sua riconoscenza nei confronti degli avvocati Franco Sammarco, Paolo Sammarco e Anna Spada. «Certe ferite non si rimarginano - racconta Principe al Dubbio -. Non tanto per quanto mi riguarda personalmente, ma per il dolore che ho provocato alla mia famiglia. Sono stati anni difficili». Nella sua arringa, Franco Sammarco aveva evidenziato l’assenza di notitia criminis, insistendo molto sulle lacune dell’inchiesta. «Siamo dinanzi ad una impostazione che definirei geneticamente distorta e distorcente, allo stravolgimento di un corretto sistema investigativo - aveva affermato in aula -. Se il tema dell’infiltrazione mafiosa deve essere commisurato alla capacità di inserirsi nelle istituzioni che dovrebbe essere facilitato dal patto criminale, in questo processo è emerso come abbia portato alla mancata elezione di ciascuno delle persone che sarebbero state sostenute. Queste candidature, frutto di un “pattone”, non hanno avuto seguito». La Dda aveva infatti descritto un vero e proprio “sistema”, messo in piedi proprio dall’ex sindaco: che fosse o meno lui il candidato da aiutare, per l’accusa era l’unico autorizzato a gestire i giochi politici, rivolgendosi agli uomini del clan per raccogliere voti. E il clan, da parte sua, avrebbe fatto quanto richiesto, in cambio di assunzioni clientelari, agevolazioni e aiuti per attività commerciali. Ma Sammarco ha evidenziato come «rispetto ai miliardi di investimenti pubblici e privati, la procura non è stata in grado di individuare una sola opera di interesse per l’economia della mafia o una ditta interessata ai lavori in odor di mafia», così come la commissione d’accesso. E tutto ciò che di ambiguo è accaduto a Rende, aveva sottolineato il legale, è avvenuto «quando Principe non c’era» perché vittima di un tentato omicidio. Il popolo lo ha già assolto». Ed è stata proprio questa certezza a confortare l’ex sindaco in questi sei anni di attesa. «La mia immagine - racconta Principe - è stata sfregiata ingiustamente, ma il popolo di Rende a questo teorema non ha mai creduto. Non ho patito l’isolamento che hanno subito altre persone in questi ultimi 30 anni: ho continuato a ricevere il rispetto dei miei concittadini». Anche perché per quanto «tutte le opere dell’uomo siano perfettibili», nel panorama meridionale «Rende è stata un esempio da apprezzare, una realtà unica». E nonostante l’evidente scollatura «tra un’intera classe dirigente e questa accusa assolutamente assurda», aggiunge, «il sistema giudiziario ha dimostrato di avere gli anticorpi, perché esiste un giudice terzo che ci ha restituito un minimo di serenità. Ma questi sei anni non ce li restituirà nessuno». Soprattutto i giorni trascorsi ai domiciliari, vissuti con «l’umiliazione di vedere i carabinieri bussare alla mia porta due volte al giorno, anche alle 4 del mattino». E ora che è tutto finito, l’amore per la politica brucia ancora. «Ho una certa età - afferma -, ma la mia speranza è che le nuove generazioni prendano in mano la fiaccola riformista che ha prodotto la bella realtà che è Rende. La testa mi aiuta ancora, la passione c’è: sono pronto a dare un contributo, ma laterale. Bisogna aiutare una classe dirigente nuova a formarsi. Ma esperienze come quella che mi ha coinvolto non sono un fatto educativo per i giovani. Come potrebbero essere incentivati a dare un contributo alla collettività nel momento in cui si entra in un terreno minato? Mi auguro che questa vicenda serva per fare delle scelte, affinché, in prospettiva, queste cose non si verifichino più - conclude -. I poteri devono essere corredati da una responsabilità. I poteri irresponsabili possono essere pericolosi. Per fortuna la nostra Costituzione è stata scritta saggiamente. Ma qualcosa deve cambiare».