La condanna all’ergastolo del sergente Vadim Shishimarin, accusato di aver ucciso un cittadino ucraino il 28 febbraio scorso, è il primo provvedimento che punisce «un crimine contro la pace, la sicurezza, l’umanità e la giustizia internazionale». Il giudice Serhiy Agafonov, che ieri ha letto nel Tribunale di Kiev la sentenza, ha evidenziato che «la corte non ravvisa la possibilità d’infliggere una pena per un periodo più breve». La velocità con cui si è giunti alla condanna lascia però perplessi. È stato colpito un “un pesce piccolo”, come dice Paolo Caroli, docente di diritto penale nell’Università di Torino ed esperto di diritto penale internazionale.

Avvocato Caroli, la condanna di Shishimarin all’ergastolo è arrivata al termine di un processo svoltosi in poche settimane. La sentenza potrebbe avere anche un altro significato?

La velocità del processo si spiega, da un lato, con il fatto che l’imputazione aveva ad oggetto un singolo omicidio, di un civile di 62 anni, e dall’altro con l’ammissione di responsabilità dell’imputato. Certo, non possiamo ignorare che questo processo, pur se contro un pesce decisamente piccolo, ha un alto significato comunicativo per l’Ucraina. Tutto il conflitto fra Russia e Ucraina, anche negli anni passati, ha visto usare le categorie dogmatiche del diritto penale a cominciare dalla etichetta di genocidio, come arma politica autolegittimante e delegittimante nei confronti dell’avversario, ma questa non è certo un’anomalia di questo conflitto e non deve neanche portarci a rinunciare a priori a un ruolo del diritto. Sarebbe infatti ipocrita negare il valore simbolico-stigmatizzante che la giustizia penale ha in generale, ma, soprattutto, in contesti di transizione o di conflitto in corso. Il problema sorge quando questa funzione di messaggio alla collettività non è più un effetto collaterale, ma si trasforma nel fine principale del processo, distorcendone i principi e le garanzie fondamentali.

Il difensore del soldato russo ha detto che la sentenza è più severa di quanto si potesse prevedere. È pronto a fare appello e a chiedere l’annullamento. C’è il rischio che il processo sia stato condizionato dall’esigenza di trovare subito il primo, grande colpevole di questa guerra?

Sicuramente la commisurazione della pena appare a prima vista sproporzionata, ma bisognerà aspettare una sentenza definitiva per giudicare. Il diritto penale e penale internazionale giudica le condotte dei singoli in base alle regole probatorie del processo penale e non dà né un giudizio storico sul conflitto né sulle responsabilità di diritto internazionale degli Stati. Tuttavia, è chiaro che ci sarà chi interpreterà la sentenza diversamente, come spesso accade. Quando, nel 2008, Ramush Haradinaj, comandante dell’Uck in Kosovo, venne assolto dal Tribunale penale internazionale per l’ex Yugolsavia, poiché non venne raggiunta la prova necessaria in un processo penale, anche a causa dell’intimidazione dei testimoni, molti kosovari festeggiarono la sentenza come un riconoscimento della legittimità della causa kosovara alla luce del diritto internazionale.

C’è il rischio di strumentalizzazioni?

Molti leggeranno questa sentenza riguardante il sergente russo come un riconoscimento dello status di vittima all’Ucraina. Del resto, viviamo in un’epoca in cui l’auto-rappresentazione di un gruppo come vittima di un crimine internazionale è uno degli elementi di coesione politica più forti e più pericolosi al tempo stesso, perché divide fra vittime e carnefici e paralizza ogni discussione. Ciò, ovviamente, non significa che politicamente e storicamente non ci siano aggressori e vittime, ma occorre ricordare qual è la funzione della giustizia penale ed evitare che questa venga piegata ad altri scopi. I rischi degenerativi, però, non devono sottrarci alla necessità di ricordare che i crimini internazionali sono le condotte più orribili che alcuni esseri umani possano commettere nei confronti di altri esseri umani e per questo va tracciato un confine.

La Russia potrebbe a sua volta rincorrere il clamore con pene esemplari nei confronti, per esempio, dei militari del battaglione Azov?

Certo, è possibile. C’è un dato che mi pare interessante. Oltre alle corti ucraine e potenzialmente altre corti nazionali competenti, è stata avviata un’indagine della Corte penale internazionale, che tuttavia verosimilmente avrà un problema pratico di consegna di eventuali imputati russi, visto che la Russia non è uno Stato parte e che la Corte non consente processi contumaciali. Tuttavia, c’è un'altra questione di fondo, data dal fatto che si tratta di crimini di massa e con livelli di responsabilità differenti.

A cosa si riferisce?

La cosiddetta giustizia di transizione, che è già stata sperimentata anche con riferimento a conflitti in corso come nel caso colombiano, ha come presupposto la ricerca di soluzioni che siano più complesse e differenziate e che guardino al tempo stesso al passato, come la giustizia penale, e al futuro e alla pacificazione. Certo, queste soluzioni chiamano in campo un attore che sembra essere assente in questo conflitto: la politica. Non porsi il problema di una soluzione più ampia nel lungo termine, che combini pacificazione e giustizia, sembra tradire forse una mancanza di volontà o di capacità di gestire il conflitto politicamente o quantomeno un atteggiamento per cui si lascia spazio alle Procure, che altra arma non hanno se non, correttamente, il diritto penale e nei confronti degli imputati che hanno a disposizione. Insomma, la giustizia penale, da sola, in questo scenario rischia di tramutarsi in un gigante dai piedi di argilla. Vorrei aggiungere però un’altra considerazione.

Dica pure…

La persecuzione dei crimini internazionali è sempre complessa, proprio in ragione del particolare contesto politico in cui essi avvengono, della sovrapposizione di livelli giuridici e del delicato equilibrio fra le esigenze della giustizia e quelle della pacificazione. Ma la giustizia è paziente. Fra la pena per tutti e subito e l’impunità ci sono molte soluzioni differenziate, che richiedono tempo e un ruolo innegabile della politica. Politica e giustizia non sono incompatibili. Al contrario, si presuppongono e necessitano a vicenda. I rischi si creano quando vi è un’abdicazione e si chiede all’una di svolgere le funzioni dell’altra.