I magistrati che scioperano dunque non lo fanno per tutelare le loro posizioni nell’ambito del rapporto di lavoro, ma per rappresentare la loro visione “politica” di ciò che sia meglio per regolare il funzionamento della giurisdizione. E lo fanno altresì in posizione apertamente oppositiva alle scelte che in questi giorni sta facendo il Parlamento: “Proponiamo, pertanto, all’assemblea di proclamare una giornata di astensione, delegando la G. e. c. (Giunta esecutiva centrale, ndr) ad individuare tempestivamente la data (…), tenendo conto dello sviluppo dei lavori parlamentari in corso”.

Lo sciopero, dunque, strettamente collegato all’attività in corso delle Camere, potrà essere replicato qualora ve ne sia ancora la necessità: “ Deleghiamo il Cdc (Comitato direttivo centrale, ndr), qualora non vi fossero modifiche idonee ad elidere le criticità del progetto di riforma, a prevedere tempestivamente nuove forme di protesta, non esclusa l’astensione”, cioè altri scioperi.

Se lo sciopero sia o meno legittimo in base alla lettera e allo spirito della Costituzione è questione certamente importante. Ma, nella circostanza, distrarrebbe rispetto al nodo più profondo della questione. La incanalerebbe sul piano della legittimità, scatenando, com’è prevedibile, le reazioni di chi invocherebbe la presunta minaccia ai diritti costituzionali dei cittadini- magistrati. E il tema della “minaccia” (alla magistratura) è già sufficientemente presente nelle motivazioni utilizzate per sorreggere le giustificazioni dell’iniziativa. Molto più interessante è muoversi nella logica della rivendicazione e condurla fino alle sue estreme e coerenti conseguenze.

L’Anm giunge allo sciopero attraverso due passaggi. Il primo è che la riforma “minaccia” la magistratura (“ cambierà radicalmente la figura del magistrato, in contrasto con quello che prevede la Costituzione”). Il secondo è che lo sciopero non intende essere solo oppositivo, ma si propone anche finalità costruttive, cioè di favorire un dibattito “ per far comprendere, dal nostro punto di vista, di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno”.

Il combinato disposto delle due affermazioni (difesa della Costituzione e proposte alternative) rende palese che il fine dello sciopero non risiede esclusivamente nella pretesa di dire ciò che è costituzionalmente illegittimo, ma anche di indicare quale tra le possibili applicazioni ( legittime) della Costituzione è preferibile dal punto di vista della magistratura, quale interprete dei “bisogni veri del paese”.

Il punto è centrale. I magistrati associati non si fanno solo interpreti della Costituzione, ma si propongono di andare oltre “suggerendo” le riforme migliori. Suggerimenti che la Costituzione lascia alla discrezionalità politica, perché l’attuazione delle sue norme e dei suoi principi non è (sempre) “obbligata”. Insomma, non c’è una sola applicazione possibile di quelle norme e di quei principi. E questo lo dice qualcuno che di interpretazione costituzionale se ne intende: la Corte costituzionale.

Come certamente i magistrati sanno, infatti, nel giudicare l’ammissibilità dei referendum, quindi anche dei referendum sulla giustizia che andranno al voto il 12 giugno, la Corte accerta che i quesiti proposti non riguardino leggi “a contenuto costituzionalmente vincolato”, leggi cioè che costituiscano applicazione “obbligata” della Costituzione.

E proprio a proposito di questi referendum in materia di giustizia, la Consulta, nel dichiararne l’ammissibilità, ha escluso, tra l’altro, che vi sia un impedimento costituzionale alla separazione delle funzioni, che vi sia un ( implicito) divieto costituzionale di far partecipare avvocati e professori alla valutazione dei magistrati, che sia precluso ai singoli magistrati di candidarsi da soli al Consiglio superiore della magistratura.

Su questi punti, almeno su questi punti, abbiamo la certezza, asseverata dall’organo supremo di legalità costituzionale, che le proposte dell’Anm (notoriamente critiche su separazione delle funzioni e partecipazione di avvocati e professori alle valutazioni dei Consigli giudiziari) non si giustificano perché imposte dalla Costituzione, ma siano solo una delle possibili scelte politiche che possono essere fatte sul punto. Del resto interpretare ciò di cui “il paese ha veramente bisogno” cos’è se non il cuore dell’attività politica?

Da quanto detto si possono trarre due conclusioni.

La prima è che, per quanto nobili possano essere le ragioni, almeno sui punti aperti a più soluzioni legislative, lo sciopero dell’Anm è un atto politico che non trova alcuna ragione nella difesa della Costituzione, ma esprime l’opinione di chi ritiene di essere in una posizione (privilegiata?) per interpretare i bisogni del paese. Tanto da interrompere il proprio servizio allo Stato e ai cittadini.

Ciò costituisce un salto di qualità nei rapporti tra magistratura e sovranità popolare, di cui il Parlamento, ci piaccia o no, è rappresentante (a differenza dei magistrati: art. 101 Cost.). Almeno nella Costituzione liberal- democratica vigente.

È un salto di qualità perché “la Magistratura tutta, che si riconosce nell’A. n. m.” (così la mozione sullo sciopero) non si limita ad esprimere opinioni e pareri, ma sceglie uno strumento di lotta politica che, per sua natura, e per espressa dichiarazione dell’Anm stessa, mira a cambiare l’indirizzo legislativo della maggioranza politica.

Cos’altro significa, malgrado l’edulcorazione quasi esoterica del linguaggio, affermare che “qualora non vi fossero modifiche idonee ad elidere le criticità del progetto di riforma” si dovranno prevedere “tempestivamente nuove forme di protesta, non esclusa l’astensione”? La prefigurazione di altri scioperi cos’è se non la conferma che si è entrati deliberatamente sul terreno della lotta politica reiterata nei confronti del Parlamento?

La seconda conclusione è che, in questa cornice, esiste un convitato di pietra: i referendum sulla giustizia, che la delibera sullo sciopero nemmeno menziona benché in esso vi siano soluzioni più radicali, su alcuni aspetti, di quelle che vengono contestate alla riforma Cartabia.

La domanda, che si è implicitamente fatta in altra occasione, rimane la stessa: lo sciopero è anche contro la possibile decisione del popolo nel referendum? Oppure la circostanza che i referendum rischino di non raggiungere il quorum è, per l’Anm, un motivo utile perché la sua interpretazione dei “bisogni veri del paese” venga, in questo caso, tatticamente e, qualcuno potrebbe dire, opportunisticamente taciuta? Domande che non richiedono di scomodare i grandi principi costituzionali. E attendono risposta.