Uno degli aspetti più urticanti della propaganda putiniana è il vittimismo. La retorica del “siamo circondati”, della Russia bersaglio dell’imperialismo yankee, dei nazisti ucraini, delle bugie occidentali. È un espediente necessario per rovesciare la narrazione della guerra, trasformare gli aggressori in aggrediti e l’invasione dell’Ucraina in legittima difesa. Serve anche a giustificare i propri misfatti agli occhi del mondo (un po’ come le guerre Usa per esportare la democrazia) e a influenzare l’opinione pubblica del blocco nemico. Quella russa non ne ha affatto bisogno: i giornalisti contrari all’invasione sono stati arrestati, licenziati o comunque messi in condizioni di non nuocere, come i colleghi di Novaia Gazeta che hanno deciso di sospendere le pubblicazioni per non finire nel tritacarne. Stessa sorte per i dimostranti pacifisti finiti a migliaia nei commissariati di Mosca, San Pietroburgo e Vladivostok. Oltre cortina la censura è totale e non c’è alcuna possibilità di esprimere opinioni diverse da quelle del Cremlino e dello stato maggiore dell’esercito. Ma in un sistema democratico le cose funzionano diversamente, le opinioni circolano in libertà, la polizia non chiude le redazioni e non colpisce i giornalisti non allineati al mainstream. Neanche negli Stati Uniti di Biden, da tempo in prima linea nel conflitto con Mosca, dove il New York Times rivela che i servizi di intelligence Usa hanno aiutato Kiev a uccidere una decina di generali russi localizzandone la posizione. Questo ha mandando su tutte le furie il Pentagono che ha definito «irresponsabile» la scelta del quotidiano newyorkese, ma non potendo smentire la notizia e soprattutto non potendo far nulla per impedirne la pubblicazione. La differenza tra un regime e una democrazia sta tutta qui e farebbe bene a ricordarlo il presidente del Copasir Adolfo Urso che annuncia un’inchiesta sulle «ingerenze straniere nella nostra informazione». Che cosa ha in mente il Comitato di controllo dei servizi segreti? Di spulciare le scalette dei programmi televisivi per segnalare il nemico interno? E cosa va mai blaterando il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di vigilanza Rai Michele Anzaldi (sempre lui) quando chiama «spie di Mosca» i giornalisti russi invitati nelle trasmissioni italiane? Oppure il piddino Andrea Romano che chiede al Copasir e alla vigilanza Rai di «indagare» sugli ospiti di Cartabianca? È vero, i nostri talk show pullulano di intellettuali “putiniani” , di opinionisti “equidistanti”, di negazionisti delle stragi di Bucha e Mariupol, di accademici rossobruni ossessionati dall’antiamericanismo, di mitomani della geopolitica, di divulgatori compulsivi di fake news, di pacifisti pieni di se e di ma quando si tratta di schierarsi con la resistenza ucraina. Ma per nostra fortuna non siamo nella Russia di Putin, nessuna opinione per quanto odiosa, per quanto in malafede deve finire sotto l’occhiuta minaccia della censura. Non siamo neanche nella Germania dell’Est o nell’America del maccartismo e della caccia alle streghe come forse crede Aldo Grasso che pochi giorni fa sul Corriere ha stilato una lista di proscrizione degli intellettuali che ritiene “vicini al Cremlino”. Un conto è contestare nel merito tutte le sciocchezze che vengono dette sulla guerra, altra cosa è delegittimare gli avversari, additarli in pubblico, equipararli ad agenti nemici, pretendere che scompaiano dagli schermi. Non abbiamo bisogno di patriot act che mettano il filo spinato sull’informazione, di petulante paternalismo, gli italiani non sono dei bambini rintronati, hanno opinioni e convinzioni indipentemente da quel che gli dicono i media. Gli zelanti bulletti che invocano mordacchie e inchieste e ispezioni e commissioni dovranno rassegnarsi: continueremo a vedere in tv i vari Orsini, Santoro, Montanari, Di Cesare, Vauro, Capuozzo e compagnia bella sostenere che la responsabilità della guerra è della Nato e di quei tipacci degli ucraini. Noi lo abbiamo fatto fin dal primo giorno.