Dopo la strage di Bucha, sono stati tanti i dubbi - con annesse polemiche – sollevati sugli autori dell’uccisione di centinaia di cittadini ucraini. Fare il giornalista significa indagare fino in fondo e non avere mai la verità in tasca. Toni Capuozzo, inviato di guerra che ha seguito numerosi conflitti armati in giro per il mondo negli ultimi trent’anni, si è posto alcune domande. «Le mie domande – dice al Dubbio – le ho rinvenute pure sui media stranieri, come il Guardian che non è un organo filorusso».

La guerra in Ucraina sta dando degli insegnamenti rispetto ad alcuni errori commessi e da non commettere nel futuro prossimo?

Il primo insegnamento riguarda il fatto che in una guerra ci si infila quasi senza accorgersene e poi ad un certo punto ci si rende conto che è troppo tardi per tornare indietro. Sono passati due mesi dall’inizio di questo conflitto con l’invasione russa e sembra passato moltissimo tempo da quando si è acceso il dibattito sulla no fly zone. Oggi ci sono moltissimi in grado di confermare che, con o senza la no fly zone, l’internazionalizzazione di questo conflitto è una realtà. Di fatto la Nato si trova in guerra con la Russia, seppur per interposta persona. La fornitura delle armi e le stesse dichiarazioni politiche sull’importanza di vincere e di sconfiggere Putin ci dicono che siamo davanti ad un conflitto mondiale per ora virtuale.

Paghiamo l’assenza di leader autorevoli?

Manca un negoziato vero, non c’è una figura al mondo, a parte l’autorità morale del Papa, che dica: “sedetevi, parlatevi, deponete le armi”. Washington parla il linguaggio della guerra, il vertice Nato è stato un consiglio di guerra. L’unica voce a crederci, con un linguaggio di moderazione, è la Cina. Questa cosa la dice lunga. Ci siamo inoltrati, passo dopo passo, dichiarazione dopo dichiarazione, scelta dopo scelta, in un conflitto in cui è lecito domandarsi dove andremo e come ci coinvolgerà ulteriormente. L’Italia è un Paese che invia armi, paga e pagherà le sanzioni almeno quanto il sanzionato. Nelle guerre è facile entrare, ma poi è molto difficile trovare una via d’uscita.

La strage di Bucha è uno dei simboli dei primi due mesi di guerra. Sono stati sollevati dei dubbi in merito alla veridicità, alle date e agli autori della carneficina. Le polemiche che ne sono derivate potevano essere evitate?

Ci sono dei punti di domanda su Bucha e c’è da augurarsi che gli investigatori facciano un buon lavoro. Il Guardian, che non è un organo filorusso, evidenzia che su molti dei corpi sono state trovate tracce di proiettili di artiglieria con cui gli ucraini, legittimamente, bombardavano Bucha occupata dai russi. È difficile pensare che tutti quei morti siano stati uccisi a seguito di torture, a sangue freddo o per una specie di vendetta da parte degli invasori contro chi resisteva. Le domande che io ho posto non sui cadaveri ritrovati nelle fosse comuni, ma su quelli ritrovati per strada sono ancora senza risposta. Ho chiesto molte volte come mai alcune vittime avessero i bracciali bianchi dei collaborazionisti o avessero vicino del cibo distribuito dai russi. Ho chiesto che cosa avesse fatto quella squadra speciale della polizia, guidata da un fascista, che è andata a Bucha, come scritto dai giornali ucraini, per fare opera di pulizia e la caccia ai collaborazionisti e ai sabotatori. Gli autori di queste azioni sono stati trovati? Sono stati arrestati? Non sappiamo niente. Dobbiamo sperare che le inchieste facciano chiarezza. La guerra ha questo di tremendo. Nessuno è completamente con i guanti bianchi, immacolati. Ero presente durante i bombardamenti della Nato su Belgrado nel 1999. Non mi ricordo che ci sia stato un processo contro chi ha bombardato la televisione di Milosevic, che non era una caserma. Non mi ricordo che ci sia stato un processo contro chi ha bombardato l’ambasciata cinese. Non mi ricordo che ci sia stato un processo contro chi ha bombardato un convoglio di profughi in Kosovo, scambiandolo per una colonna militare serba.

Il mondo è sempre più diviso, ma non solo per i preoccupanti blocchi contrapposti creatisi come settant’anni fa. Anche la politica e l’opinione pubblica sono spaccate di fronte alle atrocità dell’Ucraina. Cosa ne pensa?

Abbiamo vissuto dei conflitti, penso a quello dei Balcani, che erano più vicini a casa nostra ma non coinvolgevano grandi potenze. Avevano il sapore di guerre minori. Abbiamo pagato anche con vite di nostri connazionali. Penso all’Afghanistan, dove sono morti 53 militari italiani nell’arco di vent’anni in una missione di pace fallita, all’Iraq, a Nassiriya. Erano guerre viste lontane da noi, vissute solo in televisione, che non ci toccavano. Diverso il discorso per la guerra in Ucraina, che ti tocca nelle antiche corde della paura, perché vedi un Paese invaso, vedi in ogni momento le abitazioni civili distrutte e i profughi. È una guerra che ci tocca anche nel portafoglio per le ripercussioni sulla nostra economia. In più, c’è la questione del coinvolgimento dell’Italia. Il nostro Paese si è schierato, stiamo mandando armi. Fino a che punto saremo una parte spettatrice e basta? Inoltre, nella nostra opinione pubblica, c’è sempre la tendenza a schierarsi, a parteggiare. Molti parlano senza avere contezza di cosa sia una guerra, tanto poi a combatterla ci vanno sempre gli altri. L’Italia è piena di arditi che dalle loro tastiere sostengono non le ragioni della pace, ma quelle della vittoria.

La resa dell’Ucraina, senza l’arrivo di armi, avrebbe rappresentato la negazione del diritto internazionale?

Sicuramente. Io credo, però, che occorra essere realisti. Non viviamo nell’epoca dei monumenti e delle lapidi riguardanti il Risorgimento italiano. Siamo nel 2022. Dovremmo chiederci cosa è possibile fare pragmaticamente. A me pare che la resistenza disarmata in alcune località dell’Ucraina, penso a Kherson, dove le persone hanno manifestato a mani nude contro i carri armati russi, sia emblematica. Penso che nel 2022 difficilmente un Paese, nonostante l’invasione, possa essere governato con la forza. Il socialismo reale e il mondo sovietico sono crollati sotto la spinta dei popoli, che vedevano nell’altra parte dell’Europa la libertà. Il muro di Berlino non è caduto sotto i colpi dei carri armati.