Dipende, certo, da come si guardano le cose: ma per me lo “scandalo” delle presidenziali francesi non è il ballottaggio Macron vs Le Pen (riedizione del 2017), né il 22 percento conquistato da Mélenchon (che ha preso adesso 7.714.574 voti e nel 2017 ne prese 7.059.951 che valse il 19,58 percento, quindi non proprio un balzo clamoroso, “alla grillina”, per capirci), ma che Pecresse e Hidalgo, ovvero le due candidate dei due partiti che hanno “fatto” la Francia, i repubblicani e i socialisti, insieme, arrivino appena al 7 percento. E questo sì è un dato clamoroso: alle elezioni del 2017, Fillon (che peraltro partiva favorito per il ballottaggio) per i repubblicani prese il 20 percento dei voti, e Hamon per i socialisti il 6,36. Puff, svaniti. E caricarne la responsabilità sulla debolezza delle candidature di adesso è ingeneroso e anche un po’ futile.

Le due cose – una polarizzazione degli schieramenti e l’implosione delle grandi famiglie politiche - non possono leggersi separatamente. D’altronde, se è vero che “l’operazione Macron” - la fondazione e il lancio del suo movimento “En Marche”, che ci tiene fin da subito a non essere “né di destra né di sinistra” – mantiene una sua estrema debolezza nell’essere poco “popolare”, radicato cioè nelle amministrazioni locali, nella vita politica dei dipartimenti, delle città, è anche vero che non ha svuotato lui il partito socialista e quello repubblicano: è accaduto che lui abbia offerto “una casa” agli elettori socialisti e repubblicani che proprio non riuscivano a digerire l’idea di consegnare la Francia alla destra. Qualcosa cioè che funziona particolarmente nelle elezioni presidenziali – e per quello che è il presidenzialismo nella repubblica francese – e per il suo meccanismo. Ma la crisi del Ps con Hollande e quella dei repubblicani con Sarkozy prima e con Fillon poi – non l’ha prodotta Macron.

Non sembra neppure che sia un fenomeno solo francese; in Germania le due grandi famiglie politiche dei cattolici- popolari e dei socialdemocratici – che hanno “fatto” l’Europa, mica solo la Germania – riducono sempre più la loro base elettorale, tanto che c’è bisogno di una “alchimia” per costituire e varare un governo dai colori fantasiosi: entrano i Verdi, che sono un nuovo soggetto politico in più parti d’Europa e ben presenti nel parlamento europeo. E sebbene non riesca a sfondare e a costituire una minaccia, l’Afd (la destra estrema dell’Alternative für Deutschland) si stabilizza in parlamento con il suo 10 percento, erodendo la base della Cdu-Csu.

E in Spagna, Podemos di Iglesias - formazione politica di nuovo conio - dà una risposta alla crisi della sinistra e del Psoe in particolare, e si assiste a ogni tornata elettorale a un fenomeno per cui se l’una urna si riempie l’altra si svuota e viceversa. Così come accade con il Partito popolare e l’estrema destra di Vox – quando l’uno recupera lo fa a danno dell’altra e viceversa, e entrambi poi hanno divorato quella nuova esperienza di Ciudadanos. E stiamo parlando – Partito popolare e Psoe – dei due partiti che hanno messo sulle loro spalle il dopo- franchismo e l’entrata a pieno titolo nella democrazia europea.

Questo fenomeno dei vasi comunicanti - ma più spesso dello svuotamento dell’uno a vantaggio di un altro, contiguo e pure diverso - lo si può misurare “in piccolo” nelle due esperienze più importanti dell’indipendentismo attuale in Europa: lo Scottish National Party cresce svuotando il Labour in Scozia, come l’Erc è cresciuta svuotando il Psoe in Catalogna; e sia in Scozia che in Catalogna, l’esperienza socialista era “costitutiva”, antica come la politica del Novecento.

E poi c’è l’Italia – che ha il dubbio privilegio di averle vissute tutte queste crisi, e di avere prodotto soggetti politici fantasiosi e inimmaginabili. Tutto cominciò con la caduta del Muro di Berlino e la fine del socialismo reale: il Pci - che era pur sempre “il più forte Partito comunista dell’occidente” e con una storia assolutamente anomala e molto “italiana” nel quadro del comunismo internazionale (francesi, inglesi, tedeschi, spagnoli – pure per ragioni diverse - non hanno certo i comunisti che ci sono da noi) e che già con Berlinguer aveva provato un lento e cauto distacco da quel mondo - trasformò una straordinaria occasione storica in una tremenda e dolorosa “pubblica seduta di autocoscienza dei comunisti”. Non vi è alcun dubbio che dentro le fibre di ogni singolo militante lo smarrimento fosse enorme – molto più che dopo le denunce di Kruscev degli orrori dello stalinismo o il ’ 56 dell’Ungheria o il ’ 68 cecoslovacco: restò una crisi “impolitica”, e per il ruolo che i comunisti italiani avevano avuto in tutta la storia repubblicana, questa impoliticità si trasferì direttamente nella vita politica.

Quando scoppiò Tangentopoli, che travolse la Dc e il Psi di Craxi, i comunisti stanno ancora lì, imbambolati: non è che “astutamente” pensano di godere della furia che si abbatte su Dc e Psi, è che proprio non sanno cosa fare, se non stare a guardare quello che fa la magistratura – non hanno un “discorso” per la nuova repubblica che si potrebbe costruire a nascere dalle ceneri della vecchia.

È Berlusconi – peraltro sulla più “antica” delle contrapposizioni: l’anticomunismo – che coglie la palla al balzo e “inventa” un partito; non solo, ma proprio per la debolezza delle sinistre “sdogana” la destra fascista e si fa garante del suo processo di democratizzazione. È così che abbiamo, primi in Europa, una destra, che al suo interno ha di certo una tensione forte a abbandonare il passato ma calcificazioni dure a morire di quello stesso passato, che va a governare.

E poi – non è finita – abbiamo la Lega Nord di Bossi che poi diventa una “opzione italianista” con Salvini, e Beppe Grillo con le sue “cinque stelle” che fa il pieno elettorale per poi applicare governativamente il suo “né di destra né di sinistra”, andando una volta con l’una e una volta con l’altra. Ma queste cose le sappiamo. Sono, appunto, il “laboratorio italiano”: persino il governo Draghi possiamo farci rientrare, che è la dichiarazione “conclamata” di tale frammentazione impotente.

Le presidenziali in Francia con un partito “nuovo” e una destra “sdoganata” stanno quindi a pieno titolo nella situazione della politica in Europa. Qual è il tratto comune? Certo, è possibile dire che esiste un “asse” di partiti europei che sono europeisti (di centro-sinistra e liberali) e un asse anti- europeista ( di destra e ci sinistra radicale). Ma il vero problema non è questa “astratta” determinazione a essere pro o contro l’Europa e il “globalismo”. Il vero problema – con la crisi delle grandi famiglie politiche europee – è che esistono soltanto da una parte l’europeismo dei governi e dall’altra il nazionalismo. Quello che manca, e fortemente, è il “punto di vista” delle organizzazioni politiche europee - l’influenza dei “corpi intermedi” a livello europeo.

Non esiste più una “internazionale socialista”, quella di Brandt e Mitterrand - ovvero i partiti socialisti non elaborano più insieme una strategia per l’Europa - come non esiste più una “internazionale cattolico-popolare”, da Adenauer a Kohl. Ci sono cioè i governi nazionali e Bruxelles. Scholz incontra Draghi, Macron parla con Sánchez, ma gli uni e gli altri come premier, non come leader politici, e i socialisti europei non si incontrano per elaborare una linea comune, ad esempio, sulla guerra in Ucraina, lo fa l’Unione europea. Neanche i liberali si incontrano per elaborare una linea comune, e neanche i cattolico- popolari. Sono le destre, invece, molto attive: Salvini e Le Pen si sono dati un gran da fare per sviluppare, con Orban, un programma comune di sovranismo, e entrambi avevano da tempo strizzato l’occhiolino a Putin e alla sua autocrazia.

Aggiungerei anche un altro dato, che si va riproponendo in Francia, come già negli Stati uniti e come già per la Brexit e, in piccolo, anche in Italia: le città restano saldamente democratiche, mentre “la campagna”, la periferia si colora di destra. Come ci fossero due Europe, e non dell’est e dell’ovest, ma quella delle città e quella della “campagna”: in Francia era già emerso con i “gilet jaunes”. In questo senso, seguire l’esito delle elezioni in Francia fra due settimane sarà molto importante. Ma, di certo, non sarà tutto.