Nei giorni scorsi è stato assolto dal reato di concorso in associazione mafiosa l’ex consigliere Cosimo Cherubino già capogruppo socialista nel consiglio regionale della Calabria. In verità gli assolti sono stati cinque su sei imputati. L’assoluzione avviene dopo dodici anni e di questi Cherubino ne avrà trascorsi almeno quattro in carcere. Solo qualche giornale ha dedicato un trafiletto asettico alla vicenda. Per il resto nessuna riflessione e nessuna domanda. La notizia è stata trattata come una piccola bagattella simile ad un’infrazione stradale o a fastidiosi schiamazzi d’un ubriaco in luogo pubblico. In fondo, a tutto si fa l’abitudine: i giapponesi hanno imparato a convivere con il terremoto, gli afgani con la guerra, i calabresi con la mafia e la cosiddetta antimafia. Tuttavia ci sono due passaggi del comunicato diffuso all’ex consigliere regionale che colpiscono particolarmente ed infatti inizia con un “ringraziamento a Dio” e poi, come dovesse obbedire ad ex voto maturato in dodici anni di tormenti, promette solennemente che non sarà mai più candidato alle elezioni e di aver chiuso con la politica. Il resto della sua vita lo dedicherà alla famiglia. La Fede è sempre una bella cosa e dedicarsi alla famiglia una gran virtù. Non possiamo che rispettare la sua decisione e senza alcuna nostalgia per quel "mondo politico" . Il problema è un altro: il disimpegno, la promessa di silenzio e la riscoperta della "Fede" rappresentano un tratto comune dei “sopravvissuti” alle ricorrenti bufere giudiziarie che si abbattono sulla Calabria quasi che quando non si crede più alla giustizia degli uomini e ci si affidi a quella Celeste. Narrano le cronache che quando nel Sud vigeva la “legge Pica” che dava agli inquisitori diritto di vita e di morte su coloro che cadevano nelle maglie della “giustizia” sommaria, i malcapitati si aggrappassero al Crocefisso percepito come ultimo argine ad un potere sadico ed impazzito. Non siamo nella stessa fase storica ma c’è chi vorrebbe riportare indietro le lancette della Storia. Facciamo qualche esempio prendendo in esame le ultime vicende che hanno colpito esponenti della politica: Mario Oliverio, da presidente della Regione, è stato esiliato e poi assolto. Il senatore Caridi è stato tenuto in carcere qualche anno. Assolto. Mimmo Tallini è stato arrestato mentre era presidente del Consiglio regionale della Calabria e costretto alle dimissioni. Arresto annullato. La sindaca antimafia di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole è stata arrestata e poi assolta. Qualche mese fa, lo stesso Lorenzo Cesa ha avuto la casa e lo studio perquisiti ed un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Era andato a pranzo con un gruppo di calabresi, quindi in fondo se l’era cercata. Ma il caso è stato archiviato. Oggi abbiamo il caso Cherubino. Ci siamo fermati – e non a caso - a nomi noti e che in quanto tali hanno suscitato un minimo di dibattito sui giornali e nell’opinione pubblica. Le “vittime” tra la gente comune sono molti di più. Nessuno, e certo non io, invoca processi sommari o rappresaglie di alcun tipo per i magistrati che si sono resi responsabili, in così poco tempo, di tanti e gravi errori. Ma il minimo che si può chiedere è una pausa di riflessione, un momento di autonoma autocritica, una virtuosa prudenza quando si maneggia la vita degli altri. Un sostanziale rispetto delle garanze costituzionali da parte di pubblici impiegati che hanno giurato fedeltà alla Costituzione. Un minimo di cautela che dovrebbe portare a ricorre alla carcerazione preventiva, (ancora peggio nelle misure di prevenzione) che devasta la vita di una persona innocente, solo in casi estremi e rispettando non dico lo Stato di diritto ma quantomeno “l’Habeas Corpus”. Invece il “caso Pittelli” dimostra che alcune procure, come nulla fosse finora successo, utilizzano la carcerazione preventiva come una clava. Ho già scritto di non aver mai conosciuto l’ex senatore della “destra” italiana e di considerarmi distante mille miglia dalle sue scelte politiche. Ma oggi il “corpo” di questo settantenne sballottato tra carcere ed arresti domiciliari rappresenta il guanto di sfida che un potere che si ritiene assoluto ed onnipotente lancia non solo allo Stato di diritto ma ai "lumi" della Ragione. Ma cosa potrebbe fare fuori dal carcere un vecchio malandato: darsi alla fuga tra le montagne? Inquinare le prove che sono in mano ai giudici? Ripetere il reato pur non potendo esercitare la professione? E’ difficile sfuggire alla sensazione che Pittelli, già uomo di “casta” e di “privilegi”, rappresenti uno specchio per le allodole per sviare l’attenzione dal maxiprocesso "Rinascita Scott" che si trascina stancamente in un’aula bunker semivuota e sonnolenta. Il problema non è affatto Pittelli, il dramma vero è quello di un potere assoluto che prima ancora della vittima divora il “carnefice” risucchiandolo in un delirio di onnipotenza. Dinanzi ad un tale potere perché sorprendersi se i malcapitati, oggi come due secoli fa, si rivolgono a Dio o che si ritorni alla promessa (ex voto) solenne di disimpegno, e di genuflessa obbedienza pur di salvarsi? Che aggiungere? "Dio Salvi la Calabria"!