Potrebbe tradursi, se non si è già tradotta, nella classica vittoria di Pirro quella conseguita mediaticamente da Giuseppe Conte nella contestazione improvvisata dell’aumento progressivo delle spese militari per portarne il livello al 2 per cento concordato nel 2014 fra i paesi dell’alleanza atlantica.

Confrontatosi duramente e direttamente col presidente del Consiglio Mario Draghi in persona, sorprendendolo non poco per vivacità e disinvoltura, opposte alle cifre elencategli dall’interlocutore per ricordare gli aumenti effettuati dai due governi da lui presieduti fra il 2018 e il 2020; esibitosi in diretta internettiana come un Alessandro Di Battista qualunque, in maniche di camicia, contro volontà dei suoi avversari, interni ed esterni al partito, di trattarlo come un subordinato al Pd di Enrico Letta; rassegnatosi ad una spiegazione minimalista strappatagli dal presidente della Repubblica per dissipare le nubi addensatesi sulla maggioranza in un passaggio così difficile anche della situazione internazionale, con una guerra in casa europea scatenata da Putin con l’aggressione all’Ucraina, l’ex presidente del Consiglio ha cercato di passare per vincitore con i sei anni messi nel conto dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini per raggiungere anche in Italia l’obiettivo delle spese militari pari al 2 per cento del pil,

Per quieto vivere, diciamo così, comprensivi anche delle difficoltà derivategli da una conferma non proprio esaltante alla presidenza del Movimento 5 Stelle, con meno votanti e anche meno voti della consultazione digitale di sette mesi prima vanificata dai ricorsi giudiziari, Draghi per primo e gli alleati poi hanno consentito a Conte di farsi un giro metaforico al Circo Massimo come trionfatore sul percorso “graduale” delle maggiori spese militari. Lo stesso Guerini si è lasciato benevolmente esporre come l’autore dell’espediente del successo di Conte, lasciando che il 2018 fosse presentato come una sua concessione, o un suo cedimento, rispetto, e non come il traguardo prevedibile dell’intera operazione in base alla media degli aumenti intervenuti dall’ormai lontano accordo del 2014, senza accelerazioni dunque.

L’unica soddisfazione ritorsiva, chiamiamola così, presasi dal ministro Guerini è consistita nel post della sua corrente nel Pd -“Base riformista”, composta praticamente dai renziani rimasti al Nazarenoin cui, su fondo rosso scuro, è stato gridato: “Per la credibilità dell’Italia servono lealtà e verità, no bugie da cialtroni”. Ma Conte ha finto di non accorgersene e ha continuato a vantarsi del successo, rincorso dai suoi sostenitori: a cominciare da Marco Travaglio sul suo Fatto Quotidiano, fra titoli e fotomontaggi contro il presidente del Consiglio agli ordini sostanziali di Joe Biden, per finire alla vice presidente del Senato Paola Taverna, orgogliosa ancora sabato scorso di poter gridare su quel giornale, in prima pagina, che “Draghi sulla Difesa ha fatto retromarcia”.

Ora, passate le ore e le giornate dell’autoesaltazione - paragonabili alla “sconfitta della povertà” annunciata col cosiddetto reddito di cittadinanza nel 2018- il presidente dei 5 Stelle è chiamato nei fatti a raccogliere i frutti di ciò che ha incautamente seminato con la sua esibizione muscolare.

Nel Pd il clima nei riguardi dell’alleato non si può proprio dire entusiasmante. Lo stesso fatto che il segretario Enrico Letta per chiudere rapidamente una partita imbarazzante abbia dovuto rivolgersi o aggrapparsi anche lui alla presunta “concessione” di Guerini non ha aiutato e non aiuta Conte. La già ricordata corrente di Guerini ha recuperato in un soffio al Nazareno il terreno che aveva dovuto cedere a Letta l’anno scorso col cambio ai vertici dei gruppi parlamentari, soprattutto al Senato. Dove il “deposto” Andrea Marcucci non si è lasciato scappare l’occasione per avvertire, a commento proprio della vicenda delle spese militari, che i rapporti con le 5 Stelle vanno ridimensionati. Da “largo” il campo dell’alleanza con le 5 Stelle si è fatto “minato”, com’è stato detto a destra e a sinistra. È più un pantano che un campo, ormai. Gli sviluppi della guerra in Ucraina promettono ben poco di buono per come Conte ha preferito impostare il problema con una visione sostanzialmente pacifista, e un sottinteso - neppure tanto - polemico verso chi attribuisce tutte o le maggiori responsabilità della crisi a Putin.

Ma soprattutto, guardando ai dannati aspetti concreti della politica, sono curioso di vedere se e come Conte riuscirà a toccare palla - stretto fra un Draghi a dir poco indispettito e un Luigi Di Maio spiazzato anche lui dall’offensiva “domestica” nella partita appena avviata di oltre 600 nomine nel cosiddetto sottogoverno, fra consiglieri di amministrazione, amministratori delegati e presidenti di enti e società pubbliche.