Fa un po’ specie vedere Erdogan alto su uno scranno quasi papale che soprassiede ai cosiddetti colloqui di pace fra Russia e Ucraina, quasi fosse un deus ex machina per un processo che appare ancora molto lungo e denso di incognite. Fa specie perché lui e la sua Turchia non sono affatto super partes, come ci si aspetterebbe in un ruolo simile: la Turchia, membro Nato, ha acquistato aerei da guerra made non in Nato, ma in Russia; e ha venduto all’Ucraina preziosissimi droni che hanno consentito a quest’ultima un po’ di rimonta rispetto all’invasione russa: tanto per restare al tema bellico.

Dunque, non super partes, bensì con le mani in pasta in ambedue le torte: e forse è proprio questo che ha dato titolo ad Erdogan per sedere in quella posizione che pare così prestigiosa. Un’immagine di prestigio fondamentale per lui, che tenta di recuperare in politica estera quel consenso che va perdendo in politica interna: dal 53% delle ultime elezioni al 40%, così dicono le proiezioni per le elezioni presidenziali e politiche del prossimo anno. Un calo di consensi che è dovuto principalmente alla crisi economica che dal 2018 ha investito il paese e che ha come massima espressione l’inflazione, ormai fuori controllo, ma che Erdogan non vuole controllare, nel tentativo di far girare comunque la ruota degli investimenti. Anche a costo di cambiare uno dopo l’altro i presidenti della banca centrale, da un lato, e di affamare i ceti meno abbienti, all’estremo opposto della scala sociale. E se il consenso non c’è, si ricorrerà a nuove leggi elettorali per riconteggiare il risultato: ma questi escamotage meritano una riflessione specifica.

Del resto, negli ultimi anni il sultano è stato attivissimo nello scacchiere internazionale, ricercando all’estero quell’immagine smagliante che si andava offuscando in patria, e soprattutto piazzando qua e là alcuni asset che gli servivano molto: ha invaso la Siria pur di schiacciare l’esperienza dell’autonomia curda nel Rojava; si è schierato con gli armeni, nemici di ieri, contro l’Azerbaijan, turcofono e sorretto da Putin; ha utilmente ( dal suo punto di vista) prestato le proprie forze in Libia pur di scardinare la presenza europea ( e italiana in particolare); ha proposto di rimanere a Kabul a gestire il punto cruciale costituito dall’aeroporto: non gli è riuscito, ma è pur vero che è rimasto l’unico paese con un’ambasciata nella capitale; ha rilanciato la presenza Turca a Cipro, tentando di far sì che la “annessione” di una metà sia definitiva. Il tutto in un piano che vorrebbe emulare i fasti dell’impero ottomano. Così come Putin mira a emulare i fasti dello zar. Ma lo zar e il sultano, storicamente, sono stati sempre, sia pure con alterne vicende, nemici giurati, foss’altro perché il primo, per raggiungere dalle “acque fredde” del Mar Nero le “acque calde” del Mediterraneo doveva passare sui piedi, meglio negli stretti, del secondo.

Non si può pensare che il sultano, violatore delle più elementari regole dello stato di diritto e che si sorregge proprio grazie a queste violazioni, possa indicare o raggiungere, in politica estera, un ruolo di reale mediatore. Se si atteggia a tale, è solo perché nessun altro osa farlo e dunque lui ha campo libero. Male che vada, si sarà conquistato un posto a quel tavolo della pace, quello vero, che prima o poi dovrà essere messo in piedi. C’è un nesso, che non è solo ideologico o psicosociale, che non consente a un dittatore di diventare plausibile mediatore di un conflitto internazionale per una pace stabile: è una questione di valori in gioco, in ambedue i casi.

Erdogan tenta, e forse potrà anche riuscirgli, di accreditarsi come unico sollecitatore di un accordo, ma l’accordo che si può creare sotto la sua supervisione, non sarà mai stabile e realmente portatore di pace. Chi è dittatore all’interno, cercherà di risolvere anche i conflitti esteri secondo le stesse regole: imposizione del più forte e sacrificio del più debole. E, se le parti si equivalgono, sarà la convenienza del momento a dominare, misurata sulle necessità del mediatore. Erdogan, dall’alto del suo scranno, sembra mettere in guardia ambedue le parti: “qui non si mangia e non si beve, ogni boccone, ogni sorso, potrebbero essere avvelenati; io me ne intendo”.